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Lorenzaccio 1985

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Dramma/analisi in due tempi e undici quadri

PERSONAGGI
Lorenzo de’ Medici
Maria Soderini, sua madre
Elena Centani
Filippo Strozzi
Clemente VII
Pietro Aretino
Ippolito de’ Medici
Giomo, servitore di Alessandro
Scorocòncolo, servitore di Lorenzino
e poi una Maschera, due amici di Lorenzo il “Diavolo” ed un altro, il Negromante, il Banditore, e i due sicari Bebo e Cecchino.

Schema di distribuzione
Lorenzino de’ Medici
Maria Soderini
Elena Centani
Alessandro de’ Medici
Filippo Strozzi
Clemente VII / Pietro Aretino
Ippolito / Negromante / Banditore
Giomo / “Diavolo” / Bebo
Scoroconcolo / Cecchino

La scena
Fondale mobile: combonibile, o neutro, in modo da proiettarvi di volta in volta gigantografie e diapositive multi-vision.
All’interno della scena sono necessari: nel fondo, quasi attaccato al panorama, un praticabile che è ponte veneziano ma può anche essere altro; un letto a baldacchino con tendine scorrevoli, che può trasformarsi in teatrino per la recita e altro; una finestra su uno dei due fianchi della scena; una poltrona di marocchinor osso, un tavolo, uno specchio, una sedia.

Le musiche
Vari temi musicali: il tema di Elena; il tema di Roma papale; il tema dell’iconoclastia; della madre; del teatro; due canzoni: “Sete Beleze” e “Amor-Roma”.

 

PRIMO TEMPO

I - La Bella Barozza
Venezia. Ultimo giorno di carnevale del 1548. Casa di Elena Centani. Camera da letto. Sulla sinistra, un tavolino davanti ad uno specchio. Una sedia. Un candeliere con candele accese. Sulla destra, un letto a baldacchino. Più in fondo, una poltrona di marocchino rosso. Nel fondo, impressa sul panorama, una visione di Venezia. Davanti al fondale, un praticabile a mo’ di ponticello. Maschere di carnevale si muovono nel fondo, si fermano, sostano, riprendono a passare. In primo piano, davanti allo specchio, seduta, Elena Centani si prepara per la notte. Scioglie le lunghe trecce, si pettina i capelli biondi. Sul ponte si ferma una mascherina. Canta.

 

MASCHERINA: (canta) Sete beleze ghe voria a una dona
perché la se podesse ciamar bela:
larga de spale e streta de sentura,
curta de passo e de bala statura,
e ghe vorave do bei oci in testa,
nel so parlar che la fosse modesta;
e ghe vorave quattro bionde drezze:
alor se pol ciamar sete beleze.
La canzone sfuma ma la musica, malinconica, resta in sottofondo. La maschera scompare. Elena ha finito d’acconciarsi per la notte, si alza. Sussulta: da una porta letarale è entrata di colpo una zingara, con il volto coperto da una maschera. La zingara è ansante, turbata. Si getta di schianto su una sedia, per riprendere fiato.
ELENA: Chi siete? Che volete? Come osate...? (la zingara si alza di scatto e mette una mano sulla bocca di Elena, impedendole di gridare, poi si toglie la maschera e si rivela: è Lorenzo de’ Medici. Elena lo guarda, sbalordita) Siete voi, Lorenzo... Che paura, mi s’è fermato il sangue nelle vene! ma voi che fate, qui? Non dite niente? Sono suonate ventiquattro ore e voi... via! Non potete restare in camera mia!
LORENZO: Vi prego, Elena, non mi scacciate!
(Si siede di nuovo. Pausa).
ELENA: Insomma, si può sapere che v’accade?
LORENZO: Antonio, vostro marito...?
ELENA: È andato a Roma per l’acquisto d’una serie di monete... Vi ripeto che non potete rimanere qui, andate via!
LORENZO: Lasciatemi riprender fiato, ho corso tanto... Stavo tornando verso San Polo, quando mi sono accorto che due figuri mi stavano seguendo. Sentivo i loro passi rimbombare nelle calli come i rintocchi di campane a morto...
ELENA: Ancora due sicari di Cosimo...?
LORENZO: Sì, ancora, ancora, ora e ad ogni ora...
ELENA: Vergine santa! E v’hanno riconosciuto malgrado la maschera ed il vostro costume zingaresco?
LORENZO: La morte - sapete - non conosce carnevale. (si toglie la gonna zingaresca, lo scialle e la camicia, il fazzoletto sul capo e gli orecchini, parlando. Rimane con il suo abito. Si strucca, sempre parlando) In questi giorni di gesta Venezia è piana d’assassini. Sbucano dagli orti e dalle fondamenta, barcheggiano in laguna e nei canali, sostano sui ponti, s’appostano agli angoli dei rii... Tempo fa, sapendo che la mia gondola sarebbe tornata da Murano, due sicari m’aspettarono all’attracco. Ma io ero rimasto nell’isola con mio cognato, e loro per poco non accoppano il mio amico, Giovanni Della Casa, ch’era tornato solo con il gondoliere...
ELENA: Questo s’è saputo, ma quei due sono stati subito presi e lasciati nel fondo d’un carcere a marcire...
LORENZO: È vero, ma a che serve? Se Venezia rigurgita d’emissari, così era a Lione l’anno scorso. E così ormai sarà sempre. I miei nemici crescono dovunque: perfino nel terreno dei miei amici d’una volta. I fuoruscriti fiorentini che m’acclamarono nuovo Bruto e salvatore della patria, oggi m’accusano di viltà. E la parola funesta che da quel giorno mi perseguita, “Traditore! Traditore!” s’è conficcata nel cervello come un motivo che non so dimenticare. “Traditore!” Quando attraverso Piazza San Marco, quando passo in un portico o su un ponte, quando sosto accanto al pozzo d’un campiello, perfino quando entro in una casa mi vedo additato e sento mormorare: “Ecco Lorenzo traditore”. Traditore! Traditore! (con un improvviso guizzo d’umore) Lorenzo de’ Medici Traditore. Che ne dite? Potrei aggiungerlo al nome di famiglia. Suona bene, non vi pare? Lorenzo de’ Medici-Traditore! D’altra parte, a Firenze la mia casa è stata spianata e al suo posto hanno messo una lapide con su scritto: “Canto del traditore”...
ELENA: Andiamo, Lorenzo, questo sarcasmo vi fa male.
LORENZO: È vero, Elena! Anche quell’epigramma con il quale m’accolse qui a Venezia Giambattista Strozzi mi ferì a sangue!... Lo ricordo ancora:
“Qui giace un ch’esser già liberatore
della sua patria volle, ma viltade
non gli lasciò seguir tanta pietade
on’è che ne fu detto traditore”.
ELENA: Suvvia, smettete di compassionarvi. Fu incauto Giambattista a mettersi contro di voi: al suo igenuo e mal scritto epigramma avete replicato con un epitaffio che ha fatto ridere tutta Venezia. Aspettate... Lo conosco a memoria!
“Lo Strozzi giace qui, buona persona,
poeta fu ex-tempore e le foglie
d’alloro meritò. Ma prese moglie
(Elena e Lorenzo, insieme)
ELENA E LORENZO: ”e in capo non gli entrò poi la corona!”
(Ridono. Lorenzo sembra più rilassato).
ELENA: Ed ora andate, mio buon Lorenzo. Se Antonio fosse qui, lui stesso vi direbeb di restare, ma...
LORENZO: (con angoscia improvvisa) No! Non mi fate uscire, vi scongiuro! Là fuori c’è la falce!
ELENA: Calmatevi, Lorenzo, ve ne prego!
LORENZO: Sono in tanti, oramai, a darmi la caccia! Da Napoli il Vicerè, Don Pietro da Toledo, fa pressione su Cosimo, a Firenze, perché io sia preso nella tagliola! Qui a Venezia Pandolfini, ambasciatore fiorentino, aspetta che io esca allo scoperto, e Mendoza, ambasciator di Carlo Quinto, m’ha messo dietro i suoi segugi! Lasciate che rimanda ancora un poco, abbiate compassione dei miei affanni!
ELENA: Non v’ho mai visto in questo stato.
LORENZO: Braccato come il cinghiale che teme di comparire nella radura, così mi sento. (va a guardare fuori dalla finestra) Sono ancora lì fuori, ma vedrete: presto si stancheranno e andranno via. Ah, li conosco bene i miei sicari: feroci, sanguinari, ma incostanti. E fanno qualche resistenza a lavorare fuori orario. La corporazione degli Assassini ha le sue regole.
ELENA: Il vostro umore, a volte, è sepolcrale.
LORENZO: Vada per il sepolcro, se guarnito dalla vostra bellezza statuaria...
ELENA: Una compagna per l’eternità? Chiedete troppo...
LORENZO: Mi basta anche di meno: questa notte.
ELENA: Lorenzo!
LORENZO: Scusatemi, non mi sono rifugiato nella vostra casa per viltà o per paura, ma per un’estrema confidenza. Io ormai so che il cerchio si sta chiudendo, quelli che devono uccidermi non si preoccupano più di nascondersi, agiscono apertamente perché sanno che sono rimasto solo.
ELENA: Ma la Repubblica non vi protegge?
LORENZO: La Repubblica di Venezia ha adottato nei miei confronti il metodo di Pilato, se ne lava le mani. E mi fa sapere con dolcissime parole che devo essere savio e prudente. Come a dire: “Arrangiati e abbi cura della tua pelle”. San Marco bada a far l’oste. Non osa contrariar l’Imperatore. E l’infame Aretino versa olio sul fuoco!
ELENA: Non datevi pensiero per lui. Pietro Aretino è screditato agli occhi degli uomini dabbene, anche se si proclama “segretario del mondo!” È una malalingua che si vene a chi gli offre di più.
LORENZO: Lo so, e ogni tanto sbagli i suoi calcoli, come gli è successo giorni addietro, quando s’è venduto a due insieme. Però uno degli acquirenti, l’ambasciatore d’Inghilterra, non gliel’ha perdonata, e l’ha fatto ricoprire di legnate... (Lorenzo si guarda intorno; ora sembra più disteso) Devo ringraziare questo carnevale che stava per mutarsi in venerdì di passione, se ho avuto libero accesso nella vostra intimità.
ELENA: Libero accesso? Siete entrato come un ladro! È pur vero che non v’ho ancora mandato via, ma voi... non fatemi pentire della mia liberalità.
LORENZO: Promesso. So bene, ahimé, che non m’amate, ma sono certo che mi siete amica devota. E un poco, credo, tenete alla mia vita.
ELENA: Ci tengo più di quanto ci teniate voi. Siete in pericolo, a Venezia. Perché non ve n’andate?
Pausa. Musica: ha inizio in sottofondo il tema di Elena.
LORENZO: Perché qui è solo il mio corpo che rischia. Lontano da voi, anche la mia anima sarebbe in pericolo, e metterebbe a rischio anche il mio corpo.
ELENA: Non correte rischi inutili. Più volte ve l’ho detto: amo mio marito e gli sono fedele.
LORENZO: È vero, me l’avete già detto. (con uno scatto di rabbia “teatrale”) In questa città papessa, dove la libertà se ne va coi panni alzati, senza trovar nessun che le dica: “Giù la veste!”, a me capita d’sser “guasto” d’una donna fedele!
ELENA: Guasto...?
LORENZO: Nel nostro idioma toscano, gusto sta per innamorato.
ELENA: Vi prego, non parlatemi d’amore.
LORENZO: Non l’ho mai fatto, prima, con nessuno, perché dovrei tacere, ora?
ELENA: Se ne parlate, mi mancate di rispetto.
LORENZO: Non si può amare e rispettare a un tempo?
ELENA: Non è lecito parlare d’amore a chi ama un altro.
LORENZO: Voi amate vostro marito?
ELENA: Sì, e ve lo ripeto! È mio marito, quindi devo amarlo!
LORENZO: Framcesca era la moglie di Gianciotto, eppure amava Paolo.
ELENA: Qui non ci saranno libri galeotti.
LORENZO: Vostro marito ha una ragguardevole collezione di monete della Roma imperiale, ma non s’è accorto che siete voi la sola, vera, unica moneta rara della sua vita!
ELENA: Siete insolente! E siete molto ingiusto con Antonio, che vi ha ammesso a casa nostra. Dovreste ringraziarlo.
LORENZO: Lo ringrazierei se mi avesse ammesso nel vostro tàlamo. A lui la numismatica, a me l’amore.
ELENA: Uscite, signore. Andate con Dio!
LORENZO: Sì, uscirò. (va a guardare dalla finestra) Mi aspettano due angioli con le ali nere. Andò con Dio, ammesso che lui voglio stare in così cattiva compagnia. (fa per uscire) A Dio!
ELENA: Aspettate. Siete stato sciocco e volgare.
LORENZO: Lo so, ma ve l’ho detto: sono inesperto, non ho mai parlato d’amore ad una donna.
ELENA: Mi avete fatto una promessa. Se siete capace di mantenerla, potete stare ancora un poco.
LORENZO: Vi ringrazio: non farò nulla che vi faccia pentire. Però lascaite che vi parli!... (Elena cerca di interromperlo) No! Ascoltatemi, vi prego! Io... ho sempre pensato che ciò che il mondo chiama amore non sia che falsità poiché in breve tempo cambia un uomo e lo distoglie dai suoi veri affetti. Più tardi, passata l’illusione, egli si maledirà d’essere stato così stolto. Questo pensavo, e poiché non mi pareva d’aver bisogno d’un riparo contro i colpi dell’amore, andavo solo e sicuro. Ma un giorno, grazie a “Monsignor Conciossiacosaché”, il mio impareggiabile amico Della Casa, Nunzio Apostolico, conosco voi. M’imbatto in Elena, la “Bella Barozza”, come vi chiamano i veneziani. E subito
“Vero inferno è il mio petto,
vero infernale spirito son io
e vero infernale foco è il foco mio”...
l’amore mi fiorisce sulle labbra e la mia mente, chissà perché, concepisce questi versi infuocati...
ELENA: Cessate, Lorenzo! Vi proibisco.
LORENZO: Cosa temete, madonna? Siete fedele, quindi pietra refrattaria alle tentazioni! (con rabbia) Ma come potete essere fedele, se siete così bella?
ELENA: La bellezza vi sembra in contraddizione con l’onestà? Sconsolante opinione, vi siete fatta delle donne!
LORENZO: Ah, signora! Una moglie fedele è un castello in rovina dove crescono le erbacce e prolificano le serpi! È un luogo spettrale, dimenticato dagli uomini e abitato dai fantasmi della noia! (ora il suo tono è decisasmente buffonesco) Non è possibile che voi siate fedele! Vostro marito possiede una splendida villa con i giardini all’italiana e la serra rigogliosa di piante esotiche... Non può non aprirla, la sua villa! Perché il possesso è vero possesso solo quando si ha il privilegio di dividerlo con un altro!
(Elena ride, quasi suo malgrado).
ELENA: Smettetela di fare il buffone, Lorenzo. Non so se vi facciate gioco di me o di voi stesso.
LORENZO: Di me, di me, di quell’io che mi rappresenta e che va ad incappare nell’unica donna onesta d’una città che è stata scomunicata per i suoi traffici con i Turchi, una città dove le fanciulle chiuse nei monasteri ne sanno una più del diavolo, e le maritate sono pronte a cavarvi ogni voglia, una città dove le cortigiane sono più numerose che a Borgo, in Roma...
ELENA: Voi non sapete niente di me, e quando parlate d’amore avete modi bruschi e quasi militari. Eppure m’hanno detto che a Roma eravate assiduo del salotto di Tullia d’Aragona, la più celebre cortigiana della città santa...
LORENZO: Tullia d’Aragona?... (improvvisamente ha la mente altrove) Quanto tempo è passato, da quei giorni...? Lei aveva vent’anni, mentre io ne avevo sedici... Diciotto anni, dunque, son trascorsi...
ELENA: Peccato che abbiate dimenticate le sue lezioni.
LORENZO: (perso nel ricordo) Lezioni? Sì, lezioni... no, erano esempi. Esempi di tenuta. Tullia era protetta dal mio buon amico Filippo Strozzi. Io frequentavo la loro casa e Tullia... era squisita. Cantava, parlava divinamente e componeva versi raffinati... Era fedele a Filippo? Oh sì, di certo, lo adorava... Tullia e Filippo mi schiusero le porte della vita.
ELENA: Come vorrei conoscerla, questa vostra vita travagliata. E capire appieno le ragioni di quel gesto... Ma no, so che non vi piace parlarne...
LORENZO: Forse. Vorrei aver cacciato dalla mente quei vecchi e brutti canti... (pausa. Guarda Elena) Però questa notte, forse, sarò in grado di fare luce nella mia memoria opaca e nella vostra curiosità. Perché è solo curiosità, vero, Elena?
ELENA: Non so, quel vostro gesto temerario ed isolato ha fatto di voi uno degli uomini più famosi del secolo, e questo rende legittima la mia curiosità... Avervi vicino così spesso non fa che alimentare il mio desiderio di sapere ciò che tutti si chiedono, in Italia e fuori dell’Italia: “Perché?” “Perché lo fece?” Ma c’è dell’altro. Dietro la vostra cupa disperazione, dietro i vostri motteggi inquieti, io sento, con sgomento, come il volo d’un’aquila ferita... Questo m’intriga, Lorenzo, e mi commuove.
LORENZO: Ed io, adesso, mi sento ardere due volte! Il sole del ricordo mi brucia e m’addolora, e il vostro m’innamora... Oddio, ancora versi! Questo amore versificatore comincia a spaventarmi! Ma voi sedete lì, Elena, su quella poltrona di marocchino rosso... Io... vi reciterò la mia memoria sepolta!
(Lorenzo esce. Cessa la musica sul tema di Elena).

II - I tre bastardi
Roma. Palazzo Vaticano. Musica: tema di Roma papale. Il letto a baldacchino scivola dietro e si perde nel fondo. Anche la poltrona su cui è seduta Elena arretra, come se la memoria rivissuta da Lorenzo l’avesse posta in posizione d’ascolto, in secondo piano. Dal letto a baldacchino esce Clemente VII: è vecchio e malandato. Di tanto in tanto il Papa, al secolo Giulio de’ Medici, toscaneggia. Dai lati opposti entrano Alessandro e Ippolito (questi riveste l’abito talare), nipoti del Papa nepotista.

CLEMENTE: Avvicinatevi, nipoti carissimi, avvicinatevi al vostro Pontefice e zio. Tempi calamitosi, sono quelli che viviamo. La nostra amata Firenze, città infelicissima, e questa Roma martirizzata dai Lanzichenecchi, sono strette fra le ganasce d’una poderosa tenaglia. Da un lato Francesco I di Francia, fiero e bellicoso, dall’altro Carlo Quinto, Imperatore d’Austria e di Spagna. Voi sapete com’è l’Imperatore: è più potente del romano Augusto. Si dice che nelle sue terre il sole non tramonti mai. Un giorno, preoccupati per Roma, gli dicemmo: “Carlo: Roma però la lasciamo all’ombra, vero?”
ALESSANDRO: E lui che disse?
CLEMENTE: Nulla, ma è dispettoso. L’anno dopo i suoi Lanzi, soldatacci maleducati - e luterani! - chiusero Roma nelle tenebre del Sacco. E Francesco? Pensa di risolvere ogni cosa mettendo mano ai cannoni. Insomma, malgrado i nostri santi sforzi, siamo sicuri che tra lui e Carlo non ci sarà mai pace. Di conseguenza, nipoti miei, Roma e Firenze sono assai malate.
IPPOLITO: Hanno bisogno di medici, e noi siamo Medici, non è vero, Papa Zio?
CLEMENTE: Medice, cura te ipsum.
ALESSANDRO: Che cosa?
CLEMENTE: Tu zitto, somaro, che non sai il latino. (a Ippolito) E tu ‘un far giochid i parole, che li detesto. Dunque. Malgrado queste grandi ambasce, noi, illuminati sempre dallo Spirito Santo, abbiamo divisato di tessere fra le due massime canocchie una tela tutta nostra, romana e fiorentina. E poiché Carlo Imperatore ha riportato ordine a Firenze, abbiamo intimato a que’ corbacchioni di campanile degli Otto di Firenze di mettere a capo della città un altro Medici. Il Duca di Penne. E loro hanno obbedito.
ALESSANDRO: E chi sarebbe questo Duca di Penne?
CLEMENTE: Sei tu, caprone, non te lo rammenti?
ALESSANDRO: Ah sì son io, ora mi ricordo...
CLEMENTE: Non contenti di questo rimarchevole successo per la nostra famiglia, abbiamo strappato a Carlo la promessa che appena la sua figliola sarà un po’ più grandina - diciamo a dodici anni - andrà sposa al nuovo Duca di Firenze. Cioè a te, Alessandro.
ALESSANDRO: A me, a me! (s’inchina, bacia la mano al Papa)
CLEMENTE: Alzati, testa di baggio. Speriamo che con gli anni ti venga un po’ di giudizio, ché al momento sei scarsetto alquanto.
IPPOLITO: (freddo) Bene, zio. E poi?
CLEMENTE: Tu non temere, che non ti s’è dimenticato. Ho pensato... Abbiamo pensato, sempre con i lumi dello Spirito Santo che ci guida, di non squilibrare troppo la bilancia in favore di Carlo, anche s’è il più potente e il più pericoloso. E quindi, siamo riusciti a far sì che Enrico, secondogenito di Francesco I, sposi Caterina. Ta sorella, Alessandro.
IPPOLITO: Sorella? Sorellastra, visto che Caterina è figlia legittima di Lorenzo, Duca d’Urbino, mentre Alessandro è figlio naturale. Sempre ammesso che zio Lorenzo sia davvero suo padre!
ALESSANDRO: Cos’hai da dire, tu, che sei figlio bastardo di zio Giuliano, Duca di Nemours?
IPPOLITO: Bastardo a me? Bifolgo ignorantissimo, figlio della versa di Collevecchio e di non si sa chi!
Stanno per venire alle mani.
CLEMENTE: Chetatevi, baggei! Da bambini non facevate che picchiarvi, credevo che foste un po’ cresciut, e invece no! E non m’interrompete, ché già la matassa l’è così ingarbugliata, che il povero Papa ci perde ‘l filo! (pausa) Riprendiamo. Grazie adunque a questo doppio matrimonio la Chiesa di Roma, attraverso la nostra umilissima persona, ha ristabilito un già precario equilibrio. Sarà il capolavoro della politica papale. Poi tutti e tre insieme, noi, Carlo e Francesco, daremo addosso al Turco e ci piglieremo l’estro di distruggere per sempre l’infedele!
IPPOLITO: Ma non avevate detto che fra Carlo e Francesco...
CLEMENTE: Lo so, siamo nel regno di Utòpia. Ma anche un papa sogna...
IPPOLITO: Bene, zio. E poi?
CLEMENTE: Ippolito, tu sai il bene che ti vogliamo. Anche se hai solo vent’anni, sarai fatto Cardinale. E siamo certi che al prossimo Conclave, quando avremo lasciato questa valle di lacrime ma anche di delizie… avremo un terzo Medici Pontefice! Dopo Leone X e Clemente VII, tu come ti chiamerai?
IPPOLITO: Io? Nulla! Non mi chiamerò nulla! Non sono affatto contento, anzi, a dire il vero, zio, mi sembra che abbiate fatto una scelta assai fallace!
CLEMENTE: (irato) Taci, ciullo, che ‘l Papa gli è infallibile!
IPPOLITO: Io voglio Firenze.
CLEMENTE: Che te ne fai di Firenze, se hai Roma?
IPPOLITO: Non so che farmene, della vostra Roma! Roma è una cruscata di calabresi e sardosiculi, è una palude di papesse scostumate, di ladri, ladroni, roffiani e meretrici! Roma è donna di sacrilegio e d’impostura! È una donzellona chiappeggiata da malanni assortiti! Chi l’ha salvata, Roma, quando i Lanzi hanno fatto il Sacco? Le puttane, che gli hanno attaccato il mal francioso, ai tedescacci, che senza la sifilide se la ripulivano fino all’osso, Roma! Firenze, invece… Firenze è una rosa di marmo che cresce in riva all’Arno! Sapete, zio, quanti residenti ha Firenze mia? Centomila! A Roma ce ne sono appena cinquantamila, e di questi ventimila sono le cortigiane, con le famiglie loro. E che papa avrei da essere, io, a Roma? Il papa delle troje e delle bistroje?
CLEMENTE: O senti, nipote, o non far tanto ‘l moralista, sai? Ché nonostante tu abbia gli ordini, te ne mantieni una, di quelle… creature d’Iddio!
ALESSANDRO: Giulia Gonzaga! Lo sanno tutti!
CLEMENTE: E poi, Santissimo Sacramento, pensa a quello che rappresenta, Roma! Pensa alla tiara, cappuccio della terra, cielo del mondo!
IPPOLITO: La tiara? Ciabatterei! Voglio Firenze! Se me la date, la tonaca la getto alle ortiche volentieri!
ALESSANDRO: No! Firenze è mia!
IPPOLITO: Voi sapete bene, Santo Padre, che Roma non è più quella d’una volta. L’età di Raffaello è tramontata per sempre. Dopo il Sacco, non ci siamo più rialzati, siamo in miseria. Avete fatto troppi cardinali, Santo Zio, e i cardinali costano. E poi, tutti quei parenti da sistemare a corte…
CLEMENTE: Forse, Ippolito. Però tutti quei cardinali richiamano a Roma torme d’artisti, di buffoni, di poeti. E se vengono tante cortigiane, è segno di salute e di prosperità. Hai torto, sai? Roma sta risorgendo. Ho fatto tornare Michelangelo, Benvenuto Cellini… Roma attira. È come una sirena che incanta giovanetti di primo pelo. (parla con tenerezza, gli brillano gli occhi) Lasciate le comodità di casa loro, corrono a Roma, gentili e delicati, e trottano a corte, con il loro ronzio guarnito e il loro saio di velluto, venticinque ducati nella scarsella, la medaglino nella berretta, il catenino al collo, l’anello al dito e ‘l paggio appresso. (sospira, poi si riprende) Insomma, Ippolito, non ti basta d’esser fatto Cardinale? E poi Papa?
IPPOLITO: No, se devo cedere Firenze a questo zoticone.
CLEMENTE: Ti darò nuove provvigioni e prebende, e uffici e benefici di grandissime entrate. Non ti basta?
IPPOLITO: No.
CLEMENTE: Non è bello, per un religioso, aspirare alla grandezza temporale. Mi sembra che tu abbia l’animo volto più alle cose del mondo che a quelle della Chiesa.
IPPOLITO: Io con la Chiesa mi ci netto il…
CLEMENTE: (non lo fa finire) Aggiungo Villa Madama, quella dimostra costruita su progetto di Raffaello… Ti basta?
IPPOLITO: No.
CLEMENTE: E il castello di Itri.
IPPOLITO: Il Castello di Itri?
CLEMENTE: Proprio quello, è vicino a Fondi, dove ha casa la tua Giulia Gonzaga, insieme col marito, Vespasiano Colonna. Così la difenderai da quel corsaro turco, Barbarossa, meglio di quanto sappia fare suo marito.
IPPOLITO: Che sapete, voi, della storia del turco?
CLEMENTE: So, so: il Sultano Solimano s’è invaghito di lei ed ha spedito il corsaro sulle coste del Tirreno, con l’incarico di rapirla. Allora? Il Castello di Itri? Guarda che ‘un do più nulla!
IPPOLITO: E sia. Posso andare, ora, Santo Padre?
CLEMENTE: Vai pure. Aspetta! Prima m’hai rimproverato d’aver troppa gente a carico. Forse hai ragione. Ho scorso la lista dei tuoi camerieri personali: quattordici, sono davvero troppi, per le nostre tasche. Non hai bisogno di tanti servitori, ne basta uno. Gli altri li licenzio: cominciano a fare un po’ d’economia.
IPPOLITO: Vostra Santità dice il vero quando afferma che non ho bisogno di tanti servitori. Ma siccome loro hanno bisogno di me, tutt’è quattordici, voi non ne licenziate nessuno. Vi bacio la pianella. (non gli bacia niente ed esce. Clemente resta lì, pensieroso. Alessandro lo guarda a bocca aperta)
CLEMENTE: E tu cosa fai lì, allocchito? Vai!
ALESSANDRO: Vado, vado! Vi ringrazio per Firenze, padre… Santo Padre! Il Vicario di Dio me l’ha data, e io me la voglio proprio godere! (si inchina, bacia la Sacra Pantofola, fa per uscire, poi) Ah, dimenticavo: di là c’è Lorenzino. Che gli dico?
CLEMENTE: (sospira) Ah. Un altro nipote: fallo passare. (Alessandro esce. Entra Lorenzino, che scambia un’occhiata d’intesa con lui. Il Papa guarda Lorenzino con tenerezza. Gli fa una carezza, ma Lorenzino si schermisce. Il Papa cambia tono, si fa brusco) Da qualche tempo non ti fai più vedere, Lorenzino.
LORENZO: Vostra Santità non mi ha più chiamato, ma è giusto: Vostra Santità deve badare ai suoi due nipoti molto più importanti di me.
CLEMENTE: (non raccoglie l’ironia, continua con il tono risentito) Io so cose di te che non mi piacciono punto, ma lasciamo stare. Al dunque, cosa vuoi?
LORENZO: Seimila seicento ducati, Santo Padre.
CLEMENTE: Seimila seicento ducati? Seimila seicento fiaschi!
LORENZO: Non saprei dove metterli, seimila seicento fiaschi. Non parlo di fiaschi ma di scudi.
CLEMENTE: Di quali scudi parli?
LORENZO: Vostra Santità ha buona memoria; ricorderà certamente che mio nonno Lorenzo prestò quella somma alla Curia romana, per l’elezione di Papa Leone X.
CLEMENTE: Ah sì, è vero, certo che ricordo, anche se è passato tanto tempo… Tu, però, Lorenzo, chiedi troppo.
LORENZO: Io chiedo solo ciò che è mio. Avete pur dato Firenze ad Alessandro e Roma a Ippolito. Potete quindi darmi ciò che mi spetta.
CLEMENTE: E tu come sai di Roma e di Firenze?
LORENZO: Ho origliato, Sommo Bene.
CLEMENTE: Credi che sia da Medici origliare nell’anticamera?
LORENZO: Non è da Medici fare anticamera.
Pausa.
CLEMENTE: (aspro) Non sei cambiato! Hai sempre il cervello nella lingua!
LORENZO: Ormai non mi resta più che questa.
CLEMENTE: Ve la passate proprio così male, in famiglia?
LORENZO: Sì. E la causa per l’eredità contro Cosimo, a Firenze, non va avanti d’un passo. Nessuno la spinge… Se si risolvesse in nostro favore, ne trarremmo qualche migliaio di ducati. Ma nessuno la spinge…
CLEMENTE: (brusco) Non è mia giurisdizione, è roba fiorentina e io ci posso poco! (rabbonito, mellifluo) Invece, per il prestito di tuo nonno, va già meglio. Ho mandato un governatore in quel di Fano, per delle imposte che dobbiamo riscuotere colà. Ne ricaverò di che pagare il debito. Va bene, carino?
Seconda carezza. Per la seconda volta Lorenzo si schermisce.
LORENZO: No, Santo Padre. I cittadini di Fano, irritati per le nuove tasse, hanno ridotto in fin di vita il vostro governatore e l’hanno rispedito a Roma.
CLEMENTE: E a te chi l’ha detto? (furioso) E poi, cosa vuoi dire con questo, che ho mentito? Non dire che mento o sono guai, un Papa anche bugiardo ‘un po’ mentire mai!
LORENZO: (dolcissimo) Ma io non ho detto nulla…
(Pausa)
CLEMENTE: (sospira) Darò disposizione perché ti vengano dati cinquemila ducati.
LORENZO: Cinquemila? Ne dovete seimila seicento e ne restituite solo cinquemila? E senza interessi?
CLEMENTE: Ma che t’impicci, tu, d’interessi? Ah, si vede proprio che sei un Medici e che i tuoi avi erano banchieri!
LORENZO: Anche voi siete un Medici.
CLEMENTE: Sì, ma la mai banca è sotto il segno del Santi Spirito.
LORENZO: È per questo che mettete all’incasso le sacre immagini?
CLEMENTE: (adirato) Lorenzo! Smettila d’uccellar la religione!
LORENZO: (si inginocchia) Chiedo umilmente perdono. (si rialza) Facciamo almeno seimila.
CLEMENTE: No. Cinquemila: la Chiesa è povera.
LORENZO: (scattando) Ma se non fate altro che fissar gabelle! Avete messo finanche la tassazione sul puttanesimo!
CLEMENTE: Ringraziando lo Spirito Santo che ci ha ispirati. E ringrazialo anche tu, grullo: è da lì che li caveremo i tuoi ducati! (Lorenzo si inchina. Clemente lo accarezza sui capelli) Ah Lorenzo Lorenzino Lorenzaccio… Traditore. È vero che sei intimo di Francesco di Raffaello de’ Medici, quel timido moccioso un po’ pustoloso che ama tanto i libri?
E per la terza volta Lorenzo respinge la carezza.
LORENZO: Vostra Santità sa bene che anch’io amo i libri. “Se mea charta procax, mens sine labe mea est…”.
CLEMENTE: Sì, in nome dell’arte si può scusare anche l’opera più scabrosa, ma non il vizio!
LORENZO: Vizio? L’amore greco è solo un gioco. Non è vero, Santità?
CLEMENTE: (imbarazzato) Certo, l’”amor puerorum” non è che convenzione letteraria, svago umanistico. (severamente) Mi farai comunque cosa grata, Lorenzo, se condurrai qui a Roma vita più morigerata! La tua familiarità con Filippo Strozzi e con quella sua famosa cortigiana, Tullia d’Aragona, non mi piace affatto! Sai bene che lo Strozzi non m’è amico!
LORENZO: Credevo il contrario. Non v’ha forse prestato i ducati per far costruire in Firenze la Fortezza da Basso?
CLEMENTE: Sì, ma con interessi altissimi! Insomma, non mi va a genio!
LORENZO: Ma cosa avete contro di lui?
CLEMENTE: Un giorno Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, capitò in una taverna di paese. Chiese all’oste del suo stato e della sua condizione, e quello gli rispose che Dio l’aveva colmato d’ogni bene, perché la sua vita era trascorsa prospera e senza avversità alcuna. Era ricco, era sano, aveva una bella moglie e dei bei figlioli e una grande famiglia. Non aveva mai ricevuto ingiuria dalla gente, che sempre l’aveva careggiato. Sant’Ambrogio partì immediatamente da quella casa, dicendo che a quell’uomo mancava solo la collera di Dio! Così è del tuo amico Filippo Strozzi: non gli manca che la collera di Dio! (con durezza) M’è stato riferito che nel suo salotto parlate male di me, fate professione d’ateismo, sognate per Firenze una repubblica sul modello di quella veneziana, mettete alla berlina e volgete in satira il potere papale! Lorenzo! Non hai dunque rispetto per l’istituzione che ti dà i mezzi per vivere?
LORENZO: Io sono un Medici! Non posso accontentarmi d’avere solo i mezzi per vivere! Filippo mi dà il superfluo, cioè mi fa sentire ricco!
CLEMENTE: (con collera) È questo un buon motivo per cospirare contro il Papa?
(Pausa. Lorenzo sente il terreno pericoloso, cambia tattica).ù
LORENZO: Cospirare? Vi giuro che non ho mai sentito di congiurare ai vostri danni, in quella casa! Ma se in futuro così fosse, non esiterei a riferirvi ogni cosa.
CLEMENTE: Davvero?
LORENZO: Punto per punto. Se me lo chiedete, mi onorerò d’informarvi.
CLEMENTE: Te lo chiedo. E spero di potermi fidare di te.
LORENZO: Io ho imparato che non si può vivere a Roma munito d’un solo codice, quello dell’onore. Ne serve un altro: quello fornito dalla morale corrente.
CLEMENTE: Sei uno strano giovanotto, Lorenzino. Hai avuto buoni maestri, ma sembri rimasto autodidatta. Non ti fidi del sapere di nessuno; forse, nel tuo intimo, non stimi che te stesso.
LORENZO: Non so, Santo Padre. Sono troppo giovane. Non mi conosco ancora.
CLEMENTE: Vai. Domani passerai dal mio tesoriere… anzi, domani no. Passa fra dieci giorni. Ma bada: se ci accorgiamo che fai un gioco poco pulito, la collera di Dio – unitamente a quella del suo rappresentante in terra – si abbatterà su di te!
Lorenzo si inchina. Il Papa esce. Il tema musicale del Papa è al suo diapason. Elena s’è alzata. Lorenzo va a sedersi sulla poltrona dov’era seduta Elena, come se non la vedesse. Elena gli sta dietro, come l’analista che ascolta lo sfogo del paziente. Lorenzo parla dapprima piano, poi in crescendo.
LORENZO: Ingiustizia, ingiustizia! È da sempre che patisco l’ingiustizia. A dodici anni, per scampare alla furia dei Lanzi, fui mandato a Venezia insieme con mio fratello Giuliano e con mio cugino, Cosimo. Giuliano ed io, però, eravamo figli di Pierfrancesco lo scialacquatore, che ci aveva lasciati poveri in canna, mentre Cosimo era figlio dell’eroe, il grande capitano Giovanni delle Bende Nere! E Cosimino, un moccioso di sette anni, sfoggiava sete e broccati, mentre Giuliano ed io avevamo abiti dimessi. Cosimino dormiva solo, in un grande letto, Giuliano ed io nello stesso letto, in una stanza più piccola. Cosimino andava a riverire il Doge di Venezia e gli ambasciatori di Francia e d’Inghilterra, Giuliano ed io facevamo pipì nei canali. E nei ricevimenti in nostro onore, noi rimanevamo all’ombra del nostro vago cuginetto, mentre le dame si disputavano Cosimino e lo coprivano di baci! E ora questo Papa bastardo, figlio illegittimo di Giuliano, divide la torta con gli altri due bastardi, Ippolito e Alessandro! Tre bastardi sbarrano la strada a me, figlio legittimo d’un Medici e d’una Sederini, discendente di Cosimo il Vecchio, padre della Patria! Tre muli che sarebbero stati rifiutati perfino sull’arca di Noè! (si alza, agitato) Maledetto Papa, più avaro dell’avaro di Plauto! M’ha tolto mille e seicento scudi del mio avere, il Papa sodomita e simoniaco! Ma io mi vendicherò! Bada a te, Clemente, Papa e zio! Ti pentirai d’avermi scornacchiato! Hai dato Firenze al tuo bastardo! Ma sì, lo sanno tutti che quel ciuco di Alessandro è figlio tuo e della serva di Collevecchio! È il bastardo d’un bastardo, e questo bastardume darà a Firenze un fottutissimo governo bastardo! E questo bastardo d’un bastardo, che senza l’arma in mano in vale un pistacchio, impregnerà le figlie e le mogli dei fiorentini e riempirà Firenze imbastardita di bastardi e bastardini, Dio (1) bastardo!
Esce, come una furia. Elena si ritrae nel fondo.

 

III – Il Principe
Roma. Salone di un palazzo patrizio. A destra, Filippo Strozzi è entrato con un manoscritto, si siede e legge. Nel fondo, una giovinetta sale sul praticabile e canta, accompagnandosi alla chitarra: la canzone è “Amor-Roma”.

GIOVANETTA: Amor di Roma a morte ti conduce
cortigiana sventata e generosa,
il nuovo amante a morte ti riduce
in sua man morirai, splendida rosa.
Ahi che a dir ROMA alla riversa
AMOR si dice
ingrati amici t’han voluto persa
l’ultimo papa ancor ti maledice
mentre t’uccide
Quanto ti costa, Roma, il troppo amore
quanto costa a chi t’ama
il vederti morire
Ahi Roma scriteriata!
(La giovanetta esce).
FILIPPO: (leggendo le ultime pagine)… È necessario innanzi a tutte l’altre cose, come vero fondamento d’ogni impresa, provvedersi d’arme proprie; perché non si può avere né più fidi né più veri né migliori soldati. E benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori, quando si vedranno comandati dal loro principe e da quello onorare et intrattenere”.
Entra Lorenzino
LORENZO: Filippo!
FILIPPO: Lascia che ti abbracci, Lorenzo! (lo abbraccia) Ti sono molto grato per il manoscritto che m’hai portato da Firenze!
LORENZO: Ero sicuro che l’avresti apprezzato.
FILIPPO: Ho deciso di farlo pubblicare a mie spese, ho già parlato con l’editore Antonio Blado.
LORENZO: (con una smorfia) Che tempi. Il libro è dedicato ad un Medici, ed è uno Strozzi che lo fa stampare!
FILIPPO: Ma poiché sia Lorenzo Duca d’Urbino, intestatario della dedica, sia Machiavelli, sono morti, di vivo non resterebbe che il supposto figlio di Lorenzo…
LORENZO: Alessandro: ma dubitiamo che lui sappia leggere!
Ridono.
FILIPPO: Pur ammettendolo, temo proprio che “Il Principe” non faccia per lui. Anzi, mi sembrerebbe più adatto a te. Tu hai molte delle virtù che Ser Niccolò richiede. Sei sufficientemente perfido, ma sai essere dolce, sei colto ma non tanto da dimenticarti che sei anche un uomo d’azione, hai pratica d’armi ma non lo dai a vedere, sai fingere, sai mentire, sai promettere e qualche volta riesci perfino a mantenere, e infine sai essere crudele quanto basta.
LORENZO: Tutto quello che so l’ho imparato da te, Filippo.
FILIPPO: “Il Principe” si addice a un giovane, io sono vecchio. È un libro che guarda al futuro e insegna a porre il bersaglio più in alto e più lontano…
LORENZO: E pensare che a Firenze alcuni stupidi che l’hanno letto dicono che è stato scritto con il “dito del diavolo”!
FILIPPO: (infervorato) Benedetto sia il diavolo, se sa suggerire pagine così lucide! Quello che mi sbalordisce in Machiavelli è la sua spietata analisi dell’animo umano. L’uomo è qui mostrato com’è, e non come si vorrebbe che fosse. La politica di Machiavelli è un abito tagliato su misura per l’uomo reale. L’autore sembra scusarsi e dire: non li ho inventati io, gli uomini, li ho trovati nel mondo così, si tratta perciò di governarli come sono… I sudditi odiano dal profondo del cuore il loro principe, cioè lo Stato, e il Principe ricambia i suoi sudditi d’eguale moneta. Il Principe, però, dice d’amarli e si serve di loro fino a quando loro gli servono. I cittadini non vogliono né pagare imposte né far guerre, però si piegano al volere del principe per paura, per viltà, o perché sperano di cavar da lui vantaggi… Con la sua dura analisi impietosa Machiavelli scopre leggi eterne regolate sul gioco degli interessi e sull’equilibrio delle Forze. E rivela agli uomini che il male può essere combattuto da un altro male. E così, prendendo gli uomini come sono, Machiavelli si sforza di cambiarli.
LORENZO: Fatica sprecata, a mio avviso. L’uomo è vile, malvagio ed ignorante: da un simile pattume di fango non si può cavar nulla di buono. Tanto vale calpestarlo con la derisione, o passarlo per le armi. Dalla beffa alla pugnalata, ogni mezzo è buono.
FILIPPO: Si direbbe che tu sia più machiavellico del Machiavelli, amico mio: ma forse non t’è arrivata del tutto la lezione del suo trattato. Sono certo che ti servirà più tardi.
LORENZO: Forse. Ma al momento, non è di trattati che ho bisogno.
FILIPPO: Cos’hai, Lorenzo? Mi sembri teso, irrequieto. Mordi il freno…
LORENZO: Non avendo di meglio da mordere…
FILIPPO: Con chi ce l’hai?
LORENZO: Con tutti! Con la vita, che m’ha fatto nascere Medici, sì, ma povero e senza sostegni! Almeno fossi nato bastardo: oggi, se non si è bastardi, non s’avanza d’un passo in nessun luogo! Ah, gran vantaggio è l’essere illegittimi! Se sei messo da parte, non ti puoi lagnare: è giusto, sei illegittimo. Se sei portato in alto, sei contento due volte. Pensi: guarda dove sono arrivato, e sì che non sono neppure legittimo! Invece, se sei legittimo, tutto quello che hai ti par dovuto: sfido, sei legittimo! Ma se sei legittimo e ti mettono in un canto, per far posto agli illegittimi, allora sì che maledici il momento in cui – legittimamente – sei venuto al mondo!
Filippo ride francamente.
FILIPPO: Trovo legittima la tua rabbia… Però è un peccato che tanta energia vada dispersa. La rabbia è come il sole: sprizza energia. Leonardo ha fatto studi per imbrigliare l’energia del sole, chissà se ha mai pensato a sfruttare l’energia della rabbia?
LORENZO: Non c’è bisogno d’essere scienziati, per farlo: basta essere dei politici… Ed è lì che volevi arrivare, suppongo. La rabbia è il mezzo per raggiungere un fine, e tu vorresti sfruttare la mia per il fine della tua rivolta…
FILIPPO: È così. Io ho fiducia in te, ti so valente e la nostra causa ha bisogno di uomini del tuo stampo.
LORENZO: Non contate su di me. Io mi sto solo esercitando, ma per ora lavoro con la mente.
FILIPPO: Cosa vuoi dire, Lorenzo? Bambineggi? Ti trastulli in pensieri senza senso quando la mano del tiranno stringe sempre di più la tua patria?
LORENZO: Oh, la stringa pure. Firenze è pietra dura ed il tiranno si ferirà alle dita…
FILIPPO: Retorica, Lorenzo. Non hai il coraggio d’impugnar le armi ed usi quelle della dialettica!
LORENZO: Coraggio? Mi parli di coraggio quando mi sento come il guerriero appiedato, senz’elmo e senza spada, che non sa neanche dov’è la battaglia.
FILIPPO: Te lo dirò io. E ti fornirò quanto occorre per combattere, se davvero vorrai farlo!
LORENZO: Ma non capisci? Non è questione di spade o d’alabarde, ma degli aculei fissi qui nel petto! Da solo devo procurarmi gli strumenti e da solo devo armarmi di decisione. Quando li avrò, quei mezzi – e pur d’averli non guarderò per il sottile – allora saprò qual è il mio fine!
FILIPPO: Non ti capisco, Lorenzo.
LORENZO: Non importa ma non mi vituperare. Ho bisogno della tua amicizia. E in ogni caso non dimentico i tuoi insegnamenti. Condivido, lo sai, i tuoi principi repubblicani ed il tuo culto della libertà. E sia pure idealmente, sono con i fuorusciti che tu mantieni a tue spese, in attesa di tempi migliori.
FILIPPO: Verranno, Lorenzo, e assai prima di quanto tu pensi! Il Re di Francia è con noi!
LORENZO: Ma l’Imperatore è contro. E Papa Clemente VII, intrepido nocchiero, si barcamena.
FILIPPO: È vero. Questa è la politica dei nostri tempi.
LORENZO: Che noia, la politica! Persegue – sempre – il successo personale, ma usa dei tempi così lunghi… No, Filippo. Da quando sono a Roma mi sento scivolare su una roccia a strapiombo su un fiume: ed ora sono quasi giunto alla fine. Presto, lì, nel fondo, m’immergerò nell’azione! Le trattative, i preparativi, i patteggiamenti, le schermaglie politiche... non sono per me. Io devo fare qualcosa subito, Filippo: qualcosa contro, qualcosa che perpetuerà il nome dei miei antenati ed anche il mio, in qualunque modo! Ora… mi si presenta un’occasione ed io la coglierò anche se so che, per il momento, è soltanto un gioco. Avrai presto mie notizie, Filippo! Tutta Roma ti parlerà di me!
Esce correndo. Filippo rimane soprapensiero, poi esce a sua volta.

IV – Eròstato
Roma. Sul fondo uno scorcio del Colosseo e dell’Arco di Costantino, con le statue degli illustri romani. In piedi, nel fondo, sul praticabile, un prete-negromante; nera, cupa, sinistra figura, illuminata dal fuoco rossastro d’un falò. Il prete-negromante è abbigliato come di rito: zucchetto nero conico sul capo, tonaca/zimarra nera fino ai piedi, mezza maschera sul viso, bacchetta magica. Entrano tra persone avvolte in mantelli e con il capo coperto da cappucci. Guardano il negromante, il quale, accortosi di avere pubblico, segna per terra con la bacchetta i tre rituali cerchi magici, e comincia. Musica: tema dell’iconoclastia.

NEGROMANTE: Detestazione, tremuoto, diluvio, tempesta, vento, cometa, pianeta, oceano, flusso, riflusso, genio, silfo, fauno, satiro, silvano, driade e amadriade! O Lucibello, demonio dell’inferno, poiché sbandito fosti et il nome cagnasti et hai messo nome di Lucifero Maggiore, Uriel, Seraphim Potestas, Io, Zati, Abbati, Abbata, Aagla, Caìlo, io te prego et te scongiuro per le quattro parole sacre che il grande Aagla disse a Mosé con la propria bocca, per i nove cieli dove tu abiti, d’apparirmi in aspetto visibile et senza indugio sotto una forma umana non spaventevole et senza danno per la mia persona. Appari, dunque, io te scongiuro in nome del potente Alfa, et sii il benvenuto in galatim, galata, caìlo, caìla!
Tuoni e lampi. Il negromante si getta in ginocchio e aspetta, a testa china, l’apparizione infermale. Uno dei tre amici è mascherato da diavolo, per fare uno scherzo al prete-negromante. L’altro è in realtà una ragazza, una puttana, anch’essa mascherata. Il terzo è Lorenzino. L’amico-diavolo sale sul praticabile, mentre Lorenzino e la ragazza accendono razzi fumogeni e li lanciano dietro il “diavolo”.
DIAVOLO: (con voce contraffatta) Satan Rantam, Pallantre, Cricacoeur, Scririgram, eccomi a te, stregone della notte, per siglare il patto di sangue che ti darà la ricchezza di cui hai bisogno!
Il negromante, in estasi, si alza. Mette a nudo il braccio e lo presenta al “diavolo”.
NEGROMANTE: Imperatore Lucifero, capo di tutti gli spiriti ribelli, da questo braccio sprizzerà il mio sangue per la firma!
DIAVOLO: Ancora! Non vedi che non è rosso abbastanza? (il negromante fa sprizzare altro sangue) Ancora, ancora! (idem) Ancora, ancora! (ibidem, d ibitum) Puah, questo non è sangue, è acqua! Il patto non si fa! Pussa via, pretaccio spretato!
(Gli dà una bastonata e va a raggiungere i due che, dal basso, lanciano pietre al negromante-prete, ridendo)
NEGROMANTE: Miscredenti, gente dannata e porca, possiate essere tormentati, punzecchiati, purgati, arrostiti, avvelenati, crucciati e pugnalati dal vero Lucibello!
(Fugge, mentre gli altri continuano a ridere. Pausa. Più forte, ora, il tema dell’iconoclastia).
LORENZO: Guardate che bella notte, amici! Come dice Orazio: “Nox erat et coelo fulgebat luna sereno inter minora siderea”… In una notte come questa Roma sonnacchiosa e purulenta merita una lezione! Amici: come Alcibìade, magnifico violator di leggi, che distrusse le Erme, cippi stradali ornati dalla testa di Mercurio… come Eròstato, il divino iconoclasta che incendiò il tempio di Diana ad Èfeso, io legherò il mio nome… (prende un bastone ferrato) Alla distruzione del passato, poiché è il presente che bisogna possedere! (colpisce le teste delle statue dell’Arco di Costantino. Alcune teste cadono al suolo) Giù, senatori! Giù, imperatori! Giù, preclari viri! Giù dall’Arco dedicato a Costantino, imperatore cristiano! Giù, caricature della Roma antica! Facce di marmo, giù! (compiuto il gesto vandalico, si rivolge ai due) Andiamo, amici, andiamo a seguitar lo sfregio alla Basilica di San Paolo fuori le mura! Lì ci sono tombe e sarcofagi cristiani da scoperchiare! Andiamo! Domani tutta Roma si sveglierà dal suo sonno idolatra e griderà allo scandalo! E il Papa dirà messa per le tombe profanate! Andiamo! È eterna, questa notte!
(Corre via seguito dai suoi amici).

V – Maria Sederini
Venezia. Casa di Elena. Musica: tema della madre. Il letto-baldacchino ha le tendine chiuse. Elena emerge dal fondo, apre le tendine. Nel letto c’è Lorenzo, disteso. Elena si mette alle sue spalle, di nuovo nell’atteggiamento dell’analista.

ELENA: Voi siete nutrito di cultura classica, Lorenzo, eppure non avete avuto rispetto per i monumenti dell’antichità…
LORENZO: Ma quali monumenti! Quale antichità! Le statue dell’Arco di Costantino che quella notte danneggiai a Roma erano copie degli originali, distrutti da guerre precedenti! Si volle solo vedere il vandalismo del mio gesto e non se ne capì il significato! E il Molza, poeta romano, scrisse in latino un’invettiva dove sosteneva che mi mandava il Turco, a rovinare le nostre antichità! Coglione! La mia fu un’azione contro.
ELENA: Contro chi?
LORENZO: Contro il papa. Lo odiavo: nel suo volto flaccido e bianchiccio, già pronto per i vermi, vedevo incarnato tutto il marcio del potere. Avevo risoluto d’ammazzarlo, ma i tempi non erano maturi. Già il libro di Machiavelli cominciava a darmi insegnamenti e m’ammoniva che non è opportuno procedere, se “la qualità dei tempi non si conforma al progetto”. Per questo architettai la beffa del superbo sfregio! Volli lanciare al Papa un segno del mio disprezzo, e volli anche divertirmi a mettere a rumore la quieta Roma piena di boria per le sue rovine! Quella Roma invasa da schiere di fanatici barbassori e d’antiquari che s’affannavano dietro ogni pezzo di pietra spuntato dal terreno! Anche un solo mattone veniva trasformato in feticcio d’una nuova religione pagana! E io, ateo, con un sol gesto irridevo all’antica religione ed alla nuova, oltre alla cristiana!
Elena chiude le tendine, lasciando Lorenzo dentro il letto-baldacchino, ed esce.
Firenze. Musica: tema della madre. Entra Maria Sederini, madre di Lorenzo. È tesa, sembra ansiosa e preoccupata.
MARIA: Lorenzo! Lorenzo! Alzati, Lorenzo! (apre le tendine. Lorenzo si alza, con il volto assonnato ed i capelli arruffati) Il tocco è già suonato e dormi ancora?
LORENZO: Cosa vi prende, madre? Da quand’in qua vi siete messa a contarmi l’ore d’un giusto sonno diurno, dopo le immani fatiche della notte?
MARIA: È da quando sei fuggito da Roma che t’osservo. Lascia che ti parli un poco, Lorenzino.
LORENZO: Non serve a nulla, so già cosa volete dirmi.
MARIA: Non importa, ascoltami lo stesso. Io… non ho cuore di rimproverarti…
LORENZO: … appunto, non lo fate.
MARIA: Ho solo voglia di dirti due parole.
LORENZO: E sia. Ma due parole brevi.
MARIA: Quand’eri bimbo…
LORENZO: Non si può saltare l’infanzia?
MARIA: Non essere sprezzante con tua madre! (pausa. Maria riprende) Quand’eri bimbo mi sembravi bello e di certo lo eri. E quand’andasti a Roma avevi l’occhio vivo e intelligente e il corpo asciutto, addestrato a cavalcare nei boschi e nei prati di Cafaggiolo… Ora non so cosa t’accade. Non so per quale trasformazione il viso ti s’incava e il tuo colore volge al giallo. Quando Papa Clemente Settimo…
LORENZO: … Parce sepulto.
MARIA: … seppe ch’eri stato tu l’autore di quella sacrilega bravata… tu, suo nipote, disse (a quanto m’hanno riferito): “Lorenzino è l’infamia e il vituperio di Casa Medici”. Ebbene: è come se questa infamia e questo vituperio ti trasparissero sul volto. Il disprezzo che sembri nutrire per tutti ti stampa rughe in faccia e ti fa gli occhi pesti.
LORENZO: Sciocchezze, madre. È solo l’effetto d’una sbornia, il mattino dopo. In quanto al Papa Zio, per quella “bravata” delle statue, come dici tu, ebbe il coraggio di condannarmi a morte! Se non fosse stato per il povero Ippolito, pace anche alla sua anima, m’avrebbe fatto impiccare! Ma ora è lui ch’è morto, e io son vivo. E i romani, alla notizia del suo trapasso, hanno smerdato e rotto il suo sepolcro!
MARIA: Vergognati, Lorenzo! Sei tu che imbratti con la tua mala lingua la memoria d’un grande Papa, d’un grande Medici, che ha imparentato la tua famiglia con quella dei reali di Francia e presto, anche con quella dell’imperatore!
LORENZO: Già. Grazie alla sua opera, presto il bastardo Alessandro sposerà Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo Quinto. Il bastardo impalma la bastarda… Ah, madre, perché non m’avete fatto nascere bastardo?
MARIA: Che bestialità dici?
LORENZO: Va bene, va bene. Avete finito?
MARIA: No, Lorenzo. Ho detto che devo parlare e parlerò. Devo sapere!... Un tempo, prima d’andare a Roma, tu avevi tutto. Per nascita, potevi perfino aspirare al Ducato di Firenze, ma sembravi più portato per gli studi e promettevi di diventare un grande sapiente, come Pico della Mirandola. Eri fiero ed ambizioso, le grandi vite del tuo Plutarco t’ispiravano nobili sentimenti. Lasciasti Firenze come un futuro grande uomo. In capo a quattro anni se qui rientrato come un malfattore. Sei andato via che eri Lorenzino e sei tornato come Lorenzaccio!
LORENZO: Andiamo, madre, m’annoiate.
MARIA: Perché sei sulla bocca di tutti i fiorentini? Perché tutti parlano male di te?
LORENZO: Siamo pari, anch’io non dico mai bene di nessuno.
MARIA: Cos’hai fatto, Lorenzo, della tua ambizione? Dove l’hai spesa? Non hai onta della vita che meni a Firenze? La tua intimità con il Duca Alessandro riempie di costernazione la famiglia di tuo padre e i Sederini della mia famiglia… Anche i tuoi ideali hai tradito, Lorenzo?
LORENZO: E che ne sai, tu, dei miei ideali?
MARIA: Erano quelli di tuo padre, che t’ha cresciuto nel nome della libertà e della democrazia. E ora stai alla corte d’un tiranno! E c’è di peggio…
Si ferma, indecisa, come pudica.
LORENZO: Che cosa, madre? Parlate, parlate come in confessione e poi vedrò se posso darvi l’assoluzione…
MARIA: Tu ti fai beffa delle cose divine e di quelle umane. Ma… perché ti umili con quel bestione d’Alessandro? È vero che gli procuri… vergini illibate? È vero che lo ruffianeggi? È vero che scrivi per lui lettere d’amore a nobildonne maritate? È vero che nottetempo tu e lui, travestiti da monache, scavalcate i muri dei conventi per sedurre e traviare sante creature timorate di Dio? Non sai ch’è sacrilegio?
LORENZO: Sacrilegio! Ai giorni nostri spesso i monasteri sono assai meno casti dei bordelli!
MARIA: È dunque vero che fai da giullare al Duca? Da mezzano? Da servo? Tu, un Medici… servi il figlio della fantesca di Collevecchio?
LORENZO: Oh finiscila, madre, m’hai già stancato! Ma dove vivi? Lo stare a Cafaggiolo ha fatto di te un’ignara contadina? Sai o non sai che siamo a corto di denaro? Sai o non sai che abbiamo i beni ipotecati? Sai o non sai che se perdiamo la causa dell’eredità dovremo sborsare a Cosimino e a quell’arpia della madre almeno diciottomila ducati? E tu li hai diciottomila ducati? Dove li tieni? In banca o sotto il mattone della cucina di Cafaggiolo?
MARIA: Io non li ho, i denari. Ma questo è un buon motivo per venderti al Duca?
LORENZO: Ne conosci uno più valido?
MARIA: Ma tu lo sai chi è Alessandro?
LORENZO: È una bestia. Un maiale. Un ignorante. E allora?
MARIA: È un assassino. Ha fatto avvelenare suo cugino Ippolito. Ha fatto avvelenare sua madre, la serva, solo perché si vergognava di lei. E Luisa Strozzi, la figlia del tuo amico Filippo Strozzi, sai com’è morta?
LORENZO: Lo so. L’ha uccisa Piero, suo fratello, temendo che cadesse tra le braccia d’Alessandro.
MARIA: E tu vai con lui sul medesimo cavallo? Con quel mostro?
LORENZO: Quel mostro, madre, m’ha eletto confidente. E, se vuole, dice una parola al giudice Torelli e risolve la causa a nostro beneficio… E mi fa vivere nel lusso, come deve vivere un Medici!
MARIA: (lentamente) E tu gli fai da spia.
Pausa
LORENZO: Cosa dici?
MARIA: Fai il doppio gioco. Ti fingi amico dei fuorusciti e dei contrari al Duca, poi li denunci. È così che deve vivere un Medici? Lorenzo! M’hai spezzato il cuore!
LORENZO: Bene, madre. Gettate via la parte dove ci sono io e vivete con l’altra.
MARIA: (fuori di sé) Ancora giochi, vigliacco? Ancora hai voglia di scherzare, traditore? Ancora m’offendi, depravato?
LORENZO: (esplode) Bastaaa! Non puoi parlarmi così! Hai passato il segno, madre!
Lorenzo alza il braccio, come per colpirla.
MARIA: Avanti. Colpiscimi. Uccidimi come Alessandro ha ucciso sua madre. Sei come lui, Lorenzo. Avanti. Cosa aspetti?
Lorenzo crolla in ginocchio e abbraccia la madre, singhiozzando. La cinge alla vita, nasconde il viso nel suo grembo, poi.
LORENZO: Perdonami, mamma! Io non volevo arrivare a questo, non volevo parlare con te, lo sapevo che… Ah, mamma! Tu hai perso ogni fiducia in me, e io non so darti torto, ma… aspetta. Aspetta ancora per un poco. Vedrai. Vedrai, io… farò qualcosa per cui sarò ricordato senza vergogna. Ma tu aspetta. Lascia che viva a modo mio fino a quando… no, non posso dirti di più, ma tu aspetta, ti prego, non mi maledire, non mi maledire! Io voglio bene solo alla mia famiglia, il resto del mondo mi fa orrore, ma… qualcuno pagherà, per questo orrore! Aspetta! Abbi fede in me, mamma! Ti sveglierai da questo incubo orrendo! Io… tornerò Lorenzo!
Alto il tema musicale della madre, poi un brusco silenzio. Maria, lentamente, senza far trasparire alcun sentimento, si scioglie dall’abbraccio ed esce. Lorenzo resta in ginocchio.
Musica: tema di Elena. Elena entra dal fondo. Va vicino a Lorenzo, anzi, si mette al posto della madre. Lorenzo, come una sorta di transfert, cinge Elena alla vita, esattamente come ha fatto con la madre.

VI – “Descrizione del modo tenuto da Lorenzino…”
Venezia. Casa di Elena. Continua il tema musicale di Elena.

ELENA: Lasciatemi, vi prego. Tenete fede alla vostra promessa.
LORENZO: Che cosa preferite? Che lasci la presa o tenga la promessa?
ELENA: Tenete la promessa, così lascerete la presa.
LORENZO: Vi ho promesso che non v’avrei fatto pentire della vostra generosità, non è vero?
ELENA: Appunto.
LORENZO: Ed ora siete pentita di non avermi abbandonato al mio destino che m’aspetta lì fuori, con le fauci spalancate?
ELENA: Sì…
LORENZO: Dunque preferireste vedermi morto, che aggrappato a voi?
ELENA: No! Non so! Mi confondete, con i vostri giochi… Lasciatemi. Lasciatemi, Lorenzo, ve ne prego. (Lorenzo lascia la presa) Dovreste sapere che quando una donna vuole darsi, lo fa con tutta se stessa. Se non si dà interamente, è come se non si desse. Potete possederla, ma non v’appartiene.
LORENZO: Parlate come se sapeste cosa vuol dire darsi senza dare, essere posseduta senza appartenere. Voi amate il vostro Antonio, avete detto. O non è così?
ELENA: È così.
LORENZO: E allora?.
ELENA: Voi non sapete niente di me.
LORENZO: So che siete bella e stimata. I poeti v’adorano con i loro versi. Come dice nel suo poema, quel Dragoncino da Fano? (declama, istrioneggiando)
“Nova Helena Centana nata in terra
non già per arder Troia un’altra volta
ma per fare agli amanti dura guerra”…
I versi non saranno immortali, ma celebrano la nostra virtù. E l’Aretino? Perfino lui, che “Di tutti disse male, fuorché dell’asino, scusandosi col dire: - Egli è mio prossimo!-“, quando scrive di voi, vi dipinge “adorna di maestà e d’onestà”. E cerca di emulare con la sua penna i pennelli del Tiziano e del Vasari, che v’hanno ritratto a gara… E Lodovico Domeniche, discettando sulla nobiltà delle donne, non scrive forse che Elena Centani “di bellezza pareggia la greca / e nell’onestà la romana Lucrezia”? I poeti sono i “chroniqueurs” di questa nostra epoca…
ELENA: I poeti veneziani sono spesso nostri ospiti. E i poeti, si sa, sono cortigiani. (pausa. La confessione costa a Elena qualche sforzo) Poco fa m’avete detto che qui a Venezia mi si chiama la “Bella Barbozza”.
LORENZO: Ricordo benissimo. L’ho sentito dire da più parti, e…
ELENA: Sapete cosa vuol dire?
LORENZO: (riprende a “recitare”, istrionico) Ma certo, non deve neppure essere difficile, Barozzi evidentemente è il vostro cognome da fanciulla, prima d’andar maritata ad Antonio Centani, notissimo patrizio veneziano, egregio numismatico, colto mecenate, discreto musicologo, disegnatore mediocre, intagliatore pessimo… e pur tuttavia padrone d’un bel palazzo ospitale, dove fanno bella mostra il salatorro frequentato dalla più dotta società di Venezia, e questa… che è la più bella camera da letto del mondo… (con rabbia sincera) Ma io sono Lorenzo de’ Medici! Cos’ha più di me quell’omicciatto?
ELENA: La “Bella Barbozza” è un nomignolo che viene dal Cardinal Domenico Barozzi.
(Pausa).
LORENZO: Cosa volete dire?
ELENA: Che i veneziani che mi chiamano la “Bella Barbozza” sanno che, prima d’essere la stimata consorte di Centani, io sono stata, a Roma, l’amante del Cardinal Barozzi. Come a dire: puttana da preti.
LORENZO: Raccontatemi. Sono curioso anch’io.
ELENA: (opaca) Sono nata a Napoli. Avevo appena dieci anni quando rimasi orfana di madre e di padre: perirono insieme, come insieme erano vissuti. Fu in mare, durante una traversata da Napoli a Palermo. Io avevo uno zio prete, che diceva messa a San Domenico. Mi prese con sé e mi educò nella parrocchia. Imparai il latino. E un giorno mio zio passò a Ovidio e m’insegnò l’Ars amandi. Ero poco più che una bambina, e da allora non ci fu chierico o diacono o confessore che non volesse studiare il latino insieme con me. In breve tempo divenni tanto esperta che mio zio mi cedette a un cardinale.
LORENZO: Barozzi.
ELENA: Domenico Barozzi, alto della persona, rude e forte come un capitano. Mi volle a Roma con sé e m’aprì casa a Borgo. Avevo diciotto anni – sono passati, ormai, tre lustri buoni – quando Antonio Centani, che era venuto da Venezia per acquistare un quadro del Tiziano (di soggetto sacro, non profano) mi conobbe e…
LORENZO: Volle imparare il latino anche lui.
ELENA: No. S’innamorò. Il cardinale, che s’era stancato di me, mi vendette ad Antonio insieme al quadro. E a Venezia, Centani mi sposò. Io gli giurai eterna fedeltà. E ho sempre mantenuta la promessa.
Silenzio.
LORENZO: (tenta la battuta) Beh… potrei ricomprarvi… No, scusate. Non volevo motteggiare. Però il vostro amore – mi sembra – somiglia più alla riconoscenza.
ELENA: Forse, ma chissà se l’amore non è una forma di riconoscenza.
LORENZO: Non credo sia così, se così fosse, dovreste amare me.
ELENA: Perché?
LORENZO: Perché io vi amo. Dovreste essermi grata, per questo.
ELENA: A voi piace giocare coi concetti, e usate le parole come lacci.
LORENZO: È vero, abbasso dunque le parole! (l’allaccia) Perché tante schermaglie, quando il sesso mi urla dentro insieme alla paura?
Elena si scioglie dall’abbraccio, con forza.
ELENA: Perché io non sento né l’uno né l’altra, Lorenzo!
LORENZO: (abbattuto) Già. Siete tranquilla, voi, di sensi e sentimenti.
ELENA: Parlate come fossi quasi morta.
LORENZO: No, no, voi amate. E chi ama vive e rende vivi. (cupamente, ripreso dalla sua feroce malinconia) Io, invece, è giusto che sia spento. Ho amato la morte più della vita, l’ho corteggiata a lungo, l’ho nutrita nella mia carne e nei mie pensieri. La morte è stata la mia migliore amica, con lei cenavo, parlavo, andavo a letto. Anche nei libri la cercavo. La trovai in Machiavelli, in quel brano in cui parla di Giunio Bruto, che simulò la stoltizia per diventare intimo del tiranno Tarquinio: “Dall’esempio di costui devono imparare tutti coloro che sono male contenti d’uno principe”. E ancora: “Convierne adunque fare il pazzo, come Bruto, ed assai si fa il matto laudano, parlando, veggendo, facendo cose contrarie all’animo suo per compiacere il Principe”… Questa era dunque la lezione di morte che mi forniva Machiavelli. Questa doveva essere la chiave del mio riscatto. Il Segretario Fiorentino m’aveva scritto il programma e tracciato la strada. Ora stava a me percorrerla con il passo lieve della volpe… Diventai come un giorno mi definì Benvenuto Cellini: il “filosofo pazzericcio”. E intanto riempivo Alessandro, il bastardo, di tali piaceri raffinati che presto non poté più fare a meno di me. E così rozzo e grossolano nei piaceri suoi, che quelli che gli offrivo io dovevano parergli nèttare e ambrosia appetto a un vino di campagna. E ad ogni nostra nuova impresa di ribalderia il solco che separava Alessandro dai suoi concittadini si faceva sempre più profondo. Io l’immergevo sempre di più nell’ignominia e lui, cazzone dalla vista corta, bamboccio selvaggio e feroce, mi veniva dietro e rideva… (all’improvviso, come evocato per un fenomeno paranormale, appare Alessandro. Alessandro ride. Elena siede, in disparte) Ricordati, Alessandro. Non devi fidarti di nessuno. Devi considerare i fiorentini come tuoi acerrimi nemici: tutti! E se gli devi portare offesa, questa dev’esser definitiva, tale da non permettere vendetta! Gli uomini, o si vezzeggiano o si spengono, perché mentre si possono vendicare delle offese leggere, per quelle gravi non c’è rimedio. E ricordati anche che l’ingiuria si deve fare tutta di colpo, mentre i benefici vanno fatti a poco a poco, in modo che possano essere meglio assaporati. Mi segui, Alessandro?
ALESSANDRO: Ma sì, ma sì, filosofo. Però una cosa non la capisco: perché i fiorentini sarebbero tutti nemici miei?
LORENZO: (cantilenando, come un ritornello) Perché “odioso” è il principe rapace delle roba e delle donne dei suoi sudditi…
ALESSANDRO: O basta, citrullo, con questo tuo Machiavelli, che già m’hai stracco, con costui!
LORENZO: Non dirai che non t’ho avvisato, Alessandro. Te l’ho detto e te lo ripeto: non devi fidarti di nessuno. Neanche di me: anzi, soprattutto, non fidarti di me!
ALESSANDRO: Ma sì, novello Diogene. Ti manca la botte, se no saresti Diogene redivivo.
(Ride).
LORENZO: Mi manca anche il lume.
ALESSANDRO: Che lume?
LORENZO: Il lume per cercare l’uomo. La tua erudizione è lacunosa, mio giovane principe e Duca…
ALESSANDRO: Ma tornando a te, che potrebbe farmi, un moscerino come te? Non porti mai armi. Con cosa potresti nuocermi? Con le tue manine da eunuco? (ride, ride)
LORENZO: Io tengo troppo alla mia persona, per portare armi. Se portassi armi, sarei tentato di usarle, e se avessi occasione di usarle, potrei rimetterci la pelle. Magari per una sciocchezza, per un banale litigio, potrei essere ammazzato dal primo villano che passa, da uno qualsiasi, uno che valga mille volte meno di me. Ti pare un rischio da correre?
ALESSANDRO: E se qualcuno ti offende?
LORENZO: L’offendo anch’io. A parole.
ALESSANDRO: E se offendi qualcuno e lui ti sfida?
LORENZO: Semplice. Non raccolgo la sfida.
ALESSANDRO: O bravo! Così passerai per un vigliacco.
LORENZO: Meglio un vigliacco vivo che un coraggioso morto.
ALESSANDRO: Con te non si sa mai se scherzi o fai sul serio.
LORENZO: Scherzo quando faccio sul serio, e faccio sul serio quando scherzo, ma tu non farci caso. Bada alla tua sicurezza. La cotta d’acciaio, di filo ritorto, la porti sempre?
ALESSANDRO: No, non ricordi, l’ho persa a Napoli…
LORENZO: Già, è vero, ma non te ne sei fatta lavorare una nuova?
ALESSANDRO: L’artigiano che me l’aveva fatta è morto, e s’è portato nella tomba il segreto di quel corsetto così leggero che neanche lo sentivo sulla pelle. Sarà difficile farne costruire l’eguale… Ma tu, Lorenzo, non darti pena: al fato non si scampa.
Ride, ed esce. Lorenzo richiama in causa Elena e si rivolge a lei, senza soluzione di continuità.
LORENZO: L’avevo rubato io, il suo giaco d’acciaio, a Napoli, e l’avevo buttato in un pozzo. Era la prima volta che tentavo – o meglio, ero tentato dall’idea – di uccidere Alessandro. Ma poi non ne feci niente, era troppo sorvegliato dai suoi due angeli custodi, Giomo e l’Ungaro… La seconda volta fu durante una scorribanda amorosa con le monache d’un convento. Ero sul bordo dell’altissimo muro del monastero. M’ero issato fin lì con una scala di corda, e la tenevo salda per il bastardo che saliva. Il suo corpaccio immane, avvolto in un saio da suora, faceva oscillare la fragile canapa. Intorno a noi, buio pesto: la notte era ferma ed assoluta, senza un alito di vento. Il fiato vinoso di Alessandro mi arrivava fino al viso. Avevo dei tronchesi: avrei potuto recidere le funi come le Parche recidevano il destino… No, no, mi dissi. Se lo fai, si penserà ad un incidente, e addio, liberatore della patria… Non feci nulla, ma in quel preciso istante avevo precisato la mia strategia. Avevo un solo modo per eliminarlo: sfruttare la usa inclinazione per le donne. La sua lascivia gli avrebbe fatto da lasciapassare per l’inferno. Così, Elena, mi trastullavo con la morte. Sognavo tanto spesso d’ammazzarlo che mi pareva d’averlo già fatto… (mostra una mano ad Elena) Guardate qui, Elena. Vedete, intorno al pollice, questo segno rosso? Me l’ha lasciato Alessandro agonizzante. È l’anello della morte: qui, dove il suo morto è stato più profondo, c’è il sigillo… Dopo quella morte, la morte del tiranno, un’altra morte venne ad abitarmi nella mente: la mia. Prima lontana, come suggerita o avvertita a distanza, poi più vicina, certa e familiare. Sapete, Elena? Uno dei due sicari che stanotte m’hanno seguito, mi sembra di conoscerlo. È un certo Cecchino da Bibbona; a Lione fu accusato d’aver attentato alla mia vita ed arrestato, ma io gli scrissi una lettera molto generosa e lo feci graziare. Ed ora è qui, a ritentar la sorte. Di certo è lui. Sono passati cinque anni, è un po’ più vecchio, ma è lui. Dev’essere un brav’uomo, quel Cecchino. Come diceva Alessandro? Al fato non si scampa. Se il mio fato ha le fattezze di Cecchino di Bibbona, ben venga un volto conosciuto, è confortante… Uccidere è un’azione troppo importante perché sia affidata ad uno sconosciuto bisogna dar fiducia all’assassino: è un po’ come il medico curante. Avete visto Alessandro? Lui s’è fidato, ed io ho fatto un buon lavoro: tutto fra noi, fra parenti, fra amici. Ed ora la mia vita, Elena, è arrivata alla fine del suo ciclo. Sì, lo so che sono ancora giovane, ma non è l’età che fissa un termine alla vita; a quanti anni è morto l’uomo più longevo? Ce ne sarà sempre uno più longevo di lui. La vita, si sa, è un’attesa della morte, ed io vorrei tardare un po’, ma non per viltà. Per amore, Elena. Per amore di voi. Ma se voi non mi amate, a che pro tardare? Gli antichi interrogavano sui loro destini il misterico astro Bellerofonte. Io interrogo voi, Elena. Quanto ho ancora da vivere? Basta uscire da quella porta, perché la vita sia tronca per sempre? Di là è la morte, e di qua la vita? Se è così io resto qui…
ELENA: Lorenzo…
LORENZO: Vi prego, lasciatemi parlare, sono sull’onda… Fuori è notte, una notte uguale alle infinite notti che l’hanno preceduta: e che io muoia o resti in vita, nulla cambia, nel cosmo. Gli astri continuano a starsene nel cielo, silenziosi. Silenziosi e un po’ stupidi, così fissi ed inespressivi… Io ho sempre pensato che la natura non ha un volto intelligente. Avete mai notato che spaventosa maschera d’idiozia hanno i panorami, anche i più celebrati? Rimangono lì, al sole od alla luna, a farsi rimirare senza emanare un guizzo d’ironia, senza un trasalimento, senza uno sterletto. E così le stelle. Che io ci sia o non sia, loro se ne stanno nel cielo, inchiodate nella loro cupola, come lumi appesi ad un soffitto… Che beatitudine si può provare, ad ammirare cento candele che ti pendono sul capo? E invece l’uomo affonda nel mare celeste e naufraga nell’universo, cosmico coglione… (infantile) Ma perché non mi amate, Elena? Avrei voluto ucciderlo per voi, il Duca di Firenze! Avrei voluto offrirvi la sua testa, come Perseo la testa di Medusa! (pausa. Elena non reagisce. Lorenzo si riprende) Ho scritto un’Apologia per illustrare il mio gesto. È tra le mie carte. Se dovessi mancare, chiedetela a mia madre, fatevela dare, conservatela, diffondetela, pregate vostro marito di farla stampare… Da anni mi venivano in sogno le parole e poi da sveglio combinavo frase a frase. E adesso l’opera è compiuta ed è incisa sulla pagina della mia carne viva… Devo andare, Elena? Non so più quello che dico…
ELENA: (sorride) Aveva ragione Benvenuto Cellini nel definirvi “filosofo pazzericcio”… Restate ancora. Presto albeggerà e con la notte se ne andranno i sicari.
LORENZO: Ed io avrò vissuto un altro giorno, grazie a voi… (la guarda intensamente, poi, con bambinesca cocciutaggine) Elena! Elena! Mi amerai se ti racconto come scannai Alessandro de’ Medici?
Elena si ritrae nel fondo. Lorenzo prende uno spadone di legno e si mette in guardia. Entra Scoroconcolo, il servo di Lorenzo. Ha anche lui uno spadone di legno.

VII – Prova generale
Firenze. Casa di Lorenzo. Lorenzo ed il suo servo Scoroconcolo fingono di duellare brandendo spadoni di legno. Ad ogni finto fendente, Lorenzino batte per terra con il piede.

LORENZO: Dagli! Grida più forte, Scorocòncolo!
SCOROCONCOLO: (urla a perdifiato) Ammazza! Ammazza! (agita la spada, la mulinella, poi s’arresta) Non vi pare che s’è giocato abbastanza oggi, padrone?
LORENZO: No! Lo dico io quando basta! Avanti, Piero, urla!
SCOROCONCOLO: Fatti avanti! Para questo!
LORENZO: Dagli, dagli, più forte!
SCOROCONCOLO: Aiuto! Non così! Traditore!
LORENZO: Fatti sotto, vigliacco, fatti sotto!
SCOROCONCOLO: Aiuto! M’ammazza! Ahimé, m’hai morto!
(Scivola e cade. Lorenzo si ferma. I due riprendono il fiato).
LORENZO: Per oggi può bastare.
SCOROCONCOLO: È un passatempo faticoso, padrone. Se volete esercitarvi, perché non lo fate con spade vere? E senza questo strepito dannato? Si fa più fatica a urlare che a duellare!
LORENZO: Ho le mie ragioni.
SCOROCONCOLO: Se è uno scherzo per far paure ai vostri vicini – Maria Salviati e Cosimo – penso che a quest’ora non si spaventano più. Il trucco poteva funzionare la prima o la seconda volta, ma adesso… È un mese che pestiamo i piedi qui dentro e ci sgoliamo, senza contare le feste, le musiche ed i balli… Se in questa stanza sgozziamo trenta persone, scommetto che di là non si scompongono neanche un po’. Ma vostra zia che dice di tutto questo?
LORENZO: La Salviati s’è lamentata col Duca, ma lui le ha riso in faccia.
SCOROCONCOLO: Voi… non potete dirmi perché si fa questa chhiassaiola?
LORENZO: Sai mantenere un segreto, Pieto?
SCOROCONCOLO: Padrone: da quando siete venuto in quella fetida topaia dove vivevo i miei ultimi giorni prima della forca, io v’ho guardato come il mio angiolo protettore! Voi m’avete fatta salva la vita e io sono pronto a ridarvela in ogni istante…
LORENZO: Io ho un nemico, Scorocòncolo.
SCOROCONCOLO: Ditemi il suo nome.
LORENZO: Ma che t’importa il nome! È un nemico! È un fanfarone di corte, un sapientone che ha preso, senza ragione alcuna, a sbeffeggiarmi in ogni occasione, solo o davanti agli altri…
SCOROCONCOLO: Io non rispetto nemmeno Domineddio, se mi fa burlare dai suoi santi!
LORENZO: Mi sei davvero affezionato?
SCOROCONCOLO: Per voi, signore, sono pronto a rimetter Cristo sulla croce!
LORENZO: Bravo. Quel tale, ti dicevo, è a corte. Anzi, è favorito proprio del Duca.
SCOROCONCOLO: Sia chi si voglia, non fa nulla, ditemi il suo nome e state certo che non vi darà più noia.
LORENZO: No. Voglio servirmi delle mie stesse mani: lo attirerò in un tranello in questa camera…
SCOROCONCOLO: Ah, ora capisco i finti duelli e gli ammazzamenti…
LORENZO: Qui si può fare senza rischio e senza pericolo per nessuno, capisci? E tu, all’occorrenza, mi aiuterai. Quando avrò deciso il giorno…
SCOROCONCOLO: Non avete da fare altro che un cenno col capo e capirò. Contate su di me. Posso andare?
Lorenzo fa un segno d’assenso. Scorocòoncolo esce. Lorenzo si comprime il cuore.
LORENZO: Il cuore, il cuore, il giorno s’avvicina e il cuore sembra voglia sfondare la parete del mio petto…! Oh Dio! Questa parte, al parte del buffone, non la reggo più. Sono gonfio di odio ed ho paura che ogni mio gesto, anche quello più insignificante, faccia schizzare zampilli di bile dal mio corpo!
Si china, comprimendosi il ventre. Alle sue spalle entra Alessandro. È ubriaco, si regge appena sulle gambe. Si appoggia a Lorenzo. I due vengono avanti, come reduci da un’orgia notturna.
ALESSANDRO: Era soave quel vino, Lorenzo. Che nome aveva?
LORENZO: È un Trebbiano insidioso, mio signore. Scende giù con allegra impertinenza ma poi sale alla testa con l’impeto d’un’onda che assalta la scogliera…
ALESSANDRO: (sbadiglia) Quanto parli, Lorenzo! Fortuna che hai dovizia soltanto di belle frasi. Se fossi ricco di azioni quanto sei ricco di parole di certo saliresti molto in alto: e invece eccoti qui: schiavo di feste, servo di baldorie…
LORENZO: (cupo) Hai ragione, Alessandro: sono il tuo servo e tu mi paghi perché regga la tua fronte quando vomiti dopo aver troppo bevuto…
ALESSANDRO: Non te la prendere, suvvia, pazzerello… In molte cose hai talento. Per esempio quella commedia che mettesti in scena per le mie nozze… l’Aridosia… mi piacque assai, anche se… (si sdraia per terra. Ride) mettevi alla berlina i miei peccati carnali! (sbadiglia ancora. Chiude gli occhi)
LORENZO: Ho in mente di comporre una nuova opera, ma stavolta sarà una tragedia in musica. Si chiamerà “Fiorenza” e fornirà l’occasione per lo spettacolo più straordinario che mai si sia visto… (Alessandro s’è addormentato) L’infiorerò di canti e di danze: darò libero sfogo al grave cembalo, all’organo a più registri, al dolcissimo flauto ed all’arpa armoniosa… (vede Alessandro addormentato) Dormi, Alessandro? Dormi, per la mia dannazione? Dormi e mi tenti col tuo sonno indifeso? Oh Dio! Ora potrebbe essere il momento… Potrei agire subito: potrei dargli lo sgambetto e far sì che i suoi piedi tirino calci al cielo… Ma come? Non ho armi e se tentassi di strangolarlo è così forte e duro che anche in sonno mi stritolerebbe… Per non dire dei suoi scherani dietro l’uscio che accorrerebbero al minimo rumore… No, no: riflettiamo. Val meglio aspettare. “Questo rinvio, Alessandro, non fa che prolungarti una vita ormai agonizzante…”. Scriverò la mia tragedia musicale. “Sarà il dramma lo strumento con cui sorprenderò la tua coscienza…” (1) Dormi, Alessandro. Presto, mio bel cavaliere, danzerai sul motivo del mio madrigale. Dormi, dormi pure: insieme studieremo il nuovo passo che ti porterà diritto nella tomba. Dormi, Alessandro: la mia tragedia in musica voglio scriverla tutta sul tuo corpo con la punta d’acciaio del pugnale… Senti, Alessandro? Lo senti, il tocco di queste note? È un suono mesto, Alessandro: è un “De profundis”. Dormi, Alessandro! Tu morto, sarai il mio capolavoro!

Fine del primo tempo

 

II TEMPO

I – Tela di ragno
Entrano Giomo ed Alessandro. Nel cielo, una improvvisa eclissi di sole.

GIOMO: Avete visto, signore? La luna s’è interposta al sole e tutto il mondo s’è ottenebrato! Non è buon segno. Infausto è questo giorno!
ALESSANDRO: Ma cosa vai cianciando, mio buon Giomo? Oggi è giorno di festa. La mia sposa compie tredici anni. Verranno dignitari mandati dal padre Imperatore…
GIOMO: Si potrebbero rimandare i festeggiamenti…
ALESSANDRO: Sì, e come glielo spiego? Lei intende solo il tedesco, io parlo appena l’italiano… (ride) E poi, non voglio farle questa cattiveria. Poverina: toccare non la tocco, ché più che a una margheritina la tedesca assomiglia a un cardo selvatico… Comunque tu non darti pena. Al dato non si scampa
GIOMO: Al fato no, ma a Lorenzino sì. È ben fornito di capestrerie d’ingegno, lui, e sa fare bene ogni sorta di ruffianamento. Ma è malfidato ed io dei malfidati non mi fido.
ALESSANDRO: E fai bene, Giomo, fai bene. (ride)
GIOMO: Vostra Eccellenza fa male, a scherzare su tutto. Se mi date il permesso, io gli tolgo l’anima dal corpo, al “filosofo”… Già una volta ve l’ho proposto, mentre si scalava il muro d’un convento, ma voi m’avete detto di no.
ALESSANDRO: E adesso? Perché pensi ch’io abbia mutato testa?
GIOMO: Perché fu Lorenzino a rubarvi il corsetto d’acciaio, a Napoli!
ALESSANDRO: E’ stato lui? E tu come lo sai?
GIOMO: S’era in tre, e né io né voi l’abbiamo preso. Dunque è stato lui. Lasciatemi fare: lo metterò a tortura e quel rospo dalla gola glielo caverò, quant’è vero Iddio!
ALESSANDRO: Basta, Giomo. Oggi è giorno di festa, t’ho detto.
GIOMO: (cupo) La farei volentieri a lui… Ho saputo un’altra cosa, assai grave pure questa. Posso parlare?
ALESSANDRO: Avanti. Ma in fretta, che ho da fare.
GIOMO: Ricordate la commedia di Lorenzino, il giorno del vostro matrimonio? M’hanno detto che Bastiano da Sangallo, l’architetto, aveva avuto ordine da Lorenzino di sistemare l’orchestra su un architrave di legno massiccio…
ALESSANDRO: E allora?
GIOMO: Era una trappola! Per via del peso, la scena doveva cadere sulle prime file: sulla vostra testa, signore!
ALESSANDRO: Chi t’ha detto tutto questo?
GIOMO: Giorgio Vasari. Fu lui che s’accorse dell’inganno e fece modificare l’allestimento della scena.
ALESSANDRO: Mi sembra davvero una fantasia del Vasari, lo sai ch’è un frottolaro… Allora. È tutto?
GIOMO: Non avete notato che da qualche giorno Lorenzino vi guarda con occhi di lupo? L’altro giorno Benvenuto Cellini gli ha chiesto di scrivere un moto nel rovescio della medaglia dove ser Benvenuto aveva fatto a sbalzo il vostro ritratto.
ALESSANDRO: Ricordo benissimo.
GIOMO: E allora ricorderete che Lorenzino v’ha detto, con il foco nello sguardo: “Io non pensavo ad altro, se non a darvi un rovescio che fosse degno di Vostra Eccellenza. E lo farò al più presto, e spero che sarà tale da far meravigliare il mondo!” Non si tratta d’augurio, mio signore. È una minaccia!
ALESSANDRO: Gli andava di scherzare, come sempre. Non lo sai che è un po’ tocco nel cervello?
GIOMO: Sarà, ma voi siete troppo imprudente, signore. Quell’andare a cavallo con lui in groppa dietro di voi non è affatto saggio. Lorenzino potrebbe pugnalarvi agevolmente…
ALESSANDRO: (ride) Chi, lui? Come può maneggiare un pugnale uno che sviene solo alla vista d’un’arma? Statti cheto. Non c’è da preoccuparsi, non ce n’è motivo.
GIOMO: Qualche motivo ci sarebbe.
ALESSANDRO: Avanti, quale? Ma poi basta, con codeste zacchere!
GIOMO: La causa degli eredi: avete favorito Cosimo e Lorenzo ha dovuto sborsargli diciottomila scudi tondi tondi…
ALESSANDRO: Certo che non sarà stato contento della mia decisione in pro’ di Cosimo… (ride) Forse hai ragione, mi sembra più in grugnito del solito.
GIOMO: E poi gli avete proposto di dare in moglie sua sorella Laudomia, vedova di Alemanno Salviati a… un povero diavolo come me! Cosa volete, un Medici è pur sempre un Medici, e lui si sarà risentito…
ALESSANDRO: E tu lascia che si risenta, tanto è a me che spetta l’ultima parola! Ora vai! (Giomo esce. Alessandro “entra” nella casa di Lorenzo) Lorenzo! Lorenzo! (Lorenzo appare subito. Si inchina, beffardo).
LORENZO: Avete bisogno di me, mio buon Duca, mio buon tiranno, mio buon cugino? Cosa volete che vi porti? Tre bestie al guinzaglio: Papa Farnese, Francesco I e Carlo V? O preferite un Francesco Guicciardini arrosto? O cento Strozzi in una grande torta, coi fuorusciti come candeline?
ALESSANDRO: Smettila di fare il buffone, Lorenzo. Quest’oggi ho voglia d’un po’ di poesia.
LORENZO: Chi, voi?
ALESSANDRO: Sì, io, perché?
LORENZO: Perché la poesia non è una beccaccia da colpire al volo. Perché i bisonti nella prateria non pensano ai sonetti delle allodole…
ALESSANDRO: Si può sapere che stai farneticando?
LORENZO: Questo farneticare è essere poeta.
ALESSANDRO: Dimmi dei versi. Quelli duri, spinosi ed aggressivi di quel… Cecco Angiolieri. Li ricordi?
LORENZO: Quali versi, Eccellenza? Quelli che fanno
“La povertà m’hai sì disamorato
che se incontro mia moglie per la via
a pena la conosco, in fede mia…”
ALESSANDRO: Ma no, ma no, cosa c’entra la povertà?
LORENZO: Avete ragione. Voi non c’entrate, con la povertà.
ALESSANDRO: Non darmi la baia, eh, Lorenzo!
LORENZO: La balia non vi serve, siete grande e grosso: Alessandro il Grosso!
ALESSANDRO: Bada, Lorenzo, che ti faccio mozzare le orecchie!
LORENZO: Sbagliato, mio signore: la lingua, la lingua! Dunque dunque vediamo… si favellava di Cecco Angiolieri… Ci sono! Il foco! Volete sentire il sonetto del foco? Ve lo do subito, ma attento a non bruciarvi! (declama)
“S’i fosse foco, arderei ‘l mondo;
s’i fosse vento, lo tempesterei;
s’i fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i fosse Dio, mandereil’ en profondo;
s’i fosse Papa, sare’ allor giocondo
che tutti cristiani imbrigherei (1).
S’i fosse imperator, sa’ che farei?
A tutti mozzerei lo capo a tando.
S’i fosse morte, anderei da mio padre,
s’i fosse vita, fuggirei da lui:
ALESSANDRO: È

GIOMO: E
ALESSANDRO: È
LORENZO: È




FINE

 
 
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