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Zelda 1981

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PERSONAGGI
Zelda
Scott
Padre di Zelda
Madre di Zelda
Ernest Hemingway
Scottie
Sheilah Graham
Gertrude Stein
Alice Toklas
Lord Prietsley
Lady Sylvia
Dottor Meyer/Forel
Dottor Rennie/Ladislau
Cronista
Ring Lardner
Hal Lo scocciatore
Produttore
Sceneggiatrice
Sindacalista
Diva
Attore/regista
Edouard

Prologo
Clinica Phipps, Baldimora, 1934.
Musica: “Remember” di Irving Berlin. La scena è d’un bianco accecante. Medici ed infermiere dell’ospedale psichiatrico entrano ed escono di scena, attraversano il luogo dell’azione nei loro camici immacolati, silenziosamente, con un lieve fruscio d’ali di colombe. Sono tre uomini e tre donne, che rivedremo nel corso della storia: ognuno di loro assumerà le sembianze di alcuni dei personaggi che hanno solcato la vita dei Fitzgerals, come se fossero le proiezioni mnemoniche di Zelda e di Scott. Il corpo dei dramma, insomma, è costituito da un intreccio di flash-back.
In questa storia dell’età del jazz c’è poco jazz: in effetti gli americani, quando parlano di età del jazz, vi coinvolgono le canzoni di Irving Berlin, di Jerome Kern, di Vincent Youmans, e di Gerge Gershwin – che con il jazz autentico non hanno niente a che vedere – ma anche le poesie di T.S. Eliot, i romanzi di Fitzgerald, di Don Passos, di Hemingway. Nell’opera narrativa di Scott e di Zelda Fitzgerald, d’altra parte, si parla più di ballabili anche banali (“Cheek to cheek”, di Irving Berlin, “Tea for two”, di I. Caesar e V. Youmans) e di Rag-time, Charleston, Shimmy, Fox-trot, che di spirituals e di blues.
Entrano il Dottor Meyer, primario della clinica, il giovane Dottor Rennie e Scott Fitzgerald.

 

 

SCOTT: Le liti tra me e Zelda non seguono nessuna regola. Non sono come mali fisici o ferite. Somigliano a spaccature della pelle. Non si rimarginano perché non c’è tessuto sufficiente.
MEYER: Lei dovrebbe cerare di fare a meno dell’alcool, signor Fitzgerald. Significherebbe molto per la salute di sua moglie.
SCOTT: Quando qualcuno mi consiglia di smettere di bere, non posso fare a meno di pensare a quello che disse Lincoln dal generale Grant: “Vorrei sapere che tipo di liquore beve Grant, in modo da poterne mandare un barile a tutti gli altri suoi generali”. Grant era davvero un grand’uomo. E beveva molto più di me.
MEYER: Lei ha bisogno di aiuto. Ci sono cure psicologiche molto efficaci, per il suo caso.
SCOTT: Mi sento trattato come uno schizofrenico.
MEYER: Non drammatici. La ricoverata si chiama Zelda Fitzgerald. Stiamo cercando di capire cosa si può fare per tentare di salvarla.
SCOTT: Ho riflettuto a lungo sulla sua malattia. Sono arrivato al punto di farmi domande come questa: vale più la pena salvare Zelda o me stesso?
MEYER: E cosa ha concluso?
SCOTT: Che dal punto di vista puramente utilitario sono io a mandare avanti la baracca. Sono io che provvedo a mia moglie a mia figlia. (pausa) Forse Zelda sarebbe stata un genio, se non ci fossimo mai conosciuti. Ma la realtà è diversa. Zelda fa del male a me: e attraverso me, fa del male a tutti noi. Vede, dottor Meyer: Zelda è convinta che il fatto di scrivere un libro dia una specie di divina irresponsabilità, foderata da lingotti d’oro. È ancora al livello di una liceale dello Iowa: pensa che fare la scrittrice sia una sorta di spensierata vacanza. (pausa) Invece sfrutta la mia posizione: una serra che è il mio denaro, il mio nome e il mio amore!
MEYER: Sua moglie sta scrivendo un secondo romanzo. È una buona terapia, per lei. Consideri la cosa sotto questo aspetto, signor Fitzgerald. E sia più generoso nei confronti della donna che ha sposato.
SCOTT: Lo so. Zelda offre di sé un quadro molto più simpatico del mio. So che queste manifestazioni di mancanza di autocontrollo mi stanno compromettendo, agli occhi di voi psichiatri. Ma la verità è che sono sfinito! Mi sto rovinando la salute, in cambio del suo equilibrio mentale! Con tutta probabilità un giorno o l’altro mi metterò a strillare come un matto e sarò portato via da quattro robusti infermieri – mentre Zelda sarà accompagnata a casa da una folla adorante a bordo di un’automobile coperta di fiori e le verrà offerto un contratto per una commedia musicale.
Entra Zelda. È apparentemente normale. Uno strano sorrisetto le increspa le labbra.
MEYER: Continuiamo il nostro esperimento. Mi raccomando di parlare liberamente, senza nessun tipo di inibizioni: come se il dottor Rennie non esistesse. (al dottor Rennie) Lei trascriva il dialogo per intero, se le è possibile. Me ne porterà una copia più tardi. (esce)
Zelda e Scott si siedono.
ZELDA: Cominci tu, Scott?
Flash-back. Una luce, al centro della scena, illumina Zelda che balla. Assolo della “Danza delle ore”: Quando cessa la musica, Scott, in divisa, da tenente di fantesia, le va incontro. Siamo a Montgomery, Alabama, nel 1918.
SCOTT: Ciao, Zelda, sei stata fantastica.
ZELDA: Grazie, Felix.
SCOTT: Ma io non mi chiamo Felix.
ZELDA: Però ti sta bene. Come ti chiami?
SCOTT: Scott. Tenente Francis Scott Fitzgerald.
ZELDA: Suona importante, detto così.
SCOTT: Presto sarò importante.
ZELDA: Chissà perché tutti mi dicono la stessa cosa.
SCOTT: Per me è diverso. Non confondermi con gli altri.
ZELDA: Cosa ci fai a Montgomery?
SCOTT: 67° reggimento di fanteria americana. In attesa di partire per il fronte francese.
ZELDA: Non fare l’eroe. Sai bene che la guerra sta per finire.
SCOTT: In ogni caso mi farò trasferire.
ZELDA: Perché?
SCOTT: Perché ti divoro con gli occhi da due settimane e tu non mi guardi nemmeno.
ZELDA: Ora lo sto facendo.
SCOTT: E poi perché non voglio ostruire il traffico insieme a tutti i tuoi spasimanti, davanti a casa tua.
ZELDA: Uno più, uno meno.
SCOTT: E non voglio fare la fine di quel tuo amico con la faccia da cane e i baffi da tricheco.
ZELDA: Chi?
SCOTT: L’aviatore.
ZELDA: Ah. Che fine ha fatto?
SCOTT: È precipitato con il suo aeroplano, mentre andava ad Atlanta. Il meccanico è morto. Lui sarà processato dalla corte marziale.
ZELDA: Mi dispiace, ma resto aggrappata a me stessa. Tu, comunque, non sei nell’aviazione… (pausa) Com’è successo?
SCOTT: Spero che sia stata una disgrazia.
ZELDA: È inutile angustiarsi per l’uomo-cane-tricheco. Non sarò certo io a piangere sull’inevitabile.
SCOTT: Perché l’avevi illuso?
ZELDA: Chi te l’ha detto?
SCOTT: Si dice che tu l’abbia baciato. Perché l’hai fatto?
ZELDA: Perché non avevo mai baciato un ufficiale con i baffi.
SCOTT: Creatura senza cuore. Ma mi piaci lo stesso.
ZELDA: Così va meglio. Non sopporto la freddezza dei rimproveri. Amo le canzoni che parlano di idilli estivi.
SCOTT: (incide su una porta con un temperino) Voglio incidere i nostri nomi sulla porta del Country Club, per eternare il nostro incontro. Scott Scott Scott Fitzgerald Fitzgerald Fitzgerald e Miss Zelda Nessuno.
ZELDA: Presuntuoso. Però mi piacciono gli uomini biondi.
SCOTT: Dimmi “caro”.
ZELDA: No.
SCOTT: Perché no?
ZELDA: Non dico mai niente a nessuno.
SCOTT: Dimmelo.
ZELDA: No. Non parlare.
SCOTT: Perché?
ZELDA: Sciupi tutto. Dimmi che mi ami.
SCOTT: Ti amo. E tu?
ZELDA: No.
SCOTT: Bene. Chiederò a tuo padre quando potremo sposarci.
Fine del flash-back. Clinica Phipps.
SCOTT: Zelda, allo stato delle cose la situazione del nostro matrimonio mi sta distruggendo. È tutto sleale, tutto sleale. Mi pagano a un prezzo enorme, e non per niente. La mia è una battaglia terribile. Lavoro da sette anni al mio romanzo e non riesco a finirlo. È per questa battaglia che mi pagano. Mi sono preparato tutta la vita per fare il romanziere. Ci sono riuscito perché mi sono sacrificato, perché ho sgobbato…
ZELDA: Di chi stai parlando, Scott? Non t’ho mai visto sgobbare.
SCOTT: Io sono un professionista. La differenza tra un professionista e un dilettante è qualcosa di spaventosamente difficile da analizzare. È impalpabile. Si sente dall’odore. L’odore del futuro in una sola riga.
ZELDA: E io, a naso, sono una dilettante, vero?
SCOTT: Tu… hai scritto dei bei bozzettini. Hai un taglio satirico quando parli dei nostri amici. Hai certe esperienze da riferire. Ma non hai nulla di essenziale da dire. Aver qualcosa da dire è una questione di notti insonni. È l’interminabile tentativo di scavare le verità, di portare alla luce l’essenziale.
RENNIE: Se non sbaglio, lei sta cercando di dire che è colpa di sua moglie se non pubblica un romanzo da sette anni.
SCOTT: Io non sto cercando di dire, io dico. Tre di questi anni li ho persi per la sua malattia, direttamente; e i due precedenti, indirettamente. Zelda voleva diventare ballerina di musica classica. E io l’appoggiavo.
ZELDA: Mi appoggiavi? Vuoi dire che bevevi in continuazione. Questà è la verità. Bevevi. Io non avevo nient’altro. Per questo volevo diventare una ballerina.
SCOTT: Tu conduci una lotta solitaria contro scrittori molto dotati e ricchi di talento. Sei una scrittrice di terz’ordine e una ballerina di terz’ordine.
ZELDA: Me l’hai già detto diverse volte. Ti ripeti, Scott.
SCOTT: Io sono uno scrittore professionista, con un enorme seguito. Sono l’autore di racconti più pagato nel mondo. Ho dominato a più riprese nella classifica dei best-sellers…
ZELDA: D’accordo. Ma perché mi attacchi con tanta violenza, dal momento che sono un talento di terz’ordine?
SCOTT: Tutto quello che abbiamo fatto è mio. Io sono il romanziere professionista e ti mantengo. È tutto materiale mio. Di materiale tuo, non ne esiste.
ZELDA: Scott, sei assolutamente nevrotico, quando parli del tuo lavoro! Ti autorimproveri perché non hai scritto niente in tutti questi anni. E ti abbassi all’espediente di accusare me.
SCOTT: Sai quanto mi costavi in quella clinica svizzera? Mille dollari al mese.
ZELDA: E tu quanto spendevi per bere?
SCOTT: Io mi prendevo cura di te. Dopo la pubblicazione del “Grande Gatsby”, abbiamo tentato di fare i signori in quella villa lussuosa del Delawere…
ZELDA: Va bene, va bene. Dimmi: qual è il posto di una donna nel matrimonio, secondo te?
SCOTT: Vorrei che tu pensassi ai miei interessi. Questo è il tuo primo dovere. Perché quello che sta al timone sono io.
ZELDA: La mia vita è stata così infelice che preferisco restare qui in manicomio, piuttosto che tornare a casa. (pausa) Ti dice niente questo?
SCOTT: Non mi dice un accidenti.
ZELDA: Bene. Dimmi cosa vuoi che faccia.
SCOTT: Voglio che tu smetta di scrivere romanzi.
ZELDA: Perché? “Save me the waltz” me l’hanno pubblicato. Come hanno pubblicato i miei racconti. Mi pagano, o no?
SCOTT: Hai venduto 1392 copie del tuo romanzo. Ti è arrivato un assegno di 120 dollari e 73 cents.
ZELDA: Tu sarai più bravo di me, ma…
SCOTT: Nel 1931, in piena Depressione, ho guadagnato quasi quarantamila dollari. Tu per scrivere il tuo romanzo, hai usurpato il mio territorio letterario. Mi hai copiato.
ZELDA: Mi hai fatto cambiare un sacco di passaggi, non te ne ricordi?
SCOTT: Ricordo benissimo. Mi hai danneggiato. Non posso tollerare un altro sconfinamento nel mio pascolo. Il romanzo che stai scrivendo tratta di psichiatria: e la psichiatria è la materia del mio romanzo, “Tenera è la notte”. Te ne rendi conto, o no?
ZELDA: Ma Scott, tesoro: la pazza sono io! Per questo parlo di pazzia, nel mio libro. Di cosa vuoi che tratti? Della masturbazione nelle scuole medie inferiori?
SCOTT: Evidentemente non vuoi seguire il mio discorso sul professionismo. Sarò più chiaro. Se vengo qui e ti trovo a scrivere, strappo tutto! Capito, adesso?
ZELDA: Non voglio che strappi quello che scrivo! Sai bene che almeno per metà è roba dannatamente buona!
SCOTT: “La signora Fitzgerald avrebbe dovuto fruire dell’aiuto di cui aveva bisogno per evitare che il suo libro diventasse motivo di risa”. Così ha scritto quel tal critico.
ZELDA: È uno stronzo.
SCOTT: Sono d’accordo, e la cosa poteva anche divertirmi. Ma tu, scrivendo, pregiudichi l’esito dei miei romanzi!
ZELDA: Io… non voglio dipendere da te.
RENNIE: In senso finanziario, vuole dire?
ZELDA: In qualsiasi senso. Voglio essere io, voglio parlare, voglio discutere, come un tuo pari. E se tu dici una idiozia, voglio poterti dire: “È un’idiozia, Scott!” e avere materia per sostenerlo.
SCOTT: Ok. Siamo arrivati al punto.
RENNIE: Sembra anche a me.
ZELDA: E se non posso ottenere questo, meglio che me ne rimanga qui ad intrecciare canestri di vimini.
SCOTT: Puoi dipingere, no?
ZELDA: Una volta mi hai detto: “Voglio che tu sia un’intelligenza complementare”, ricordi? Be’: è esattamente il contrario di quello che voglio io.
RENNIE: Il fatto di essere una scrittrice in vista… potrebbe compensarla di una vita senza suo marito?
ZELDA: Mi pare che si auna domanda un po’ stupida, dottor Rennie. Come posso sapere che cosa significherà?
SCOTT: Io sento che tu hai rovinato la mia vita. Zelda.
ZELDA: E tu la mia. Per quanto mi ricordo, il nostro matrimonio non è stato altro che un lungo inferno a due.
SCOTT: Però nel 1921 eravamo la coppia più invidiata d’America.
ZELDA: Eravamo attori fantastici.
SCOTT: Eravamo terribilmente felici.
Flash-back. New York, 1921. Bar del Palais Royal. Paul Whiteman suona “Two little girls in blue”. Scott e Zelda bevono.
SCOTT: Allora: cosa t’ha detto il dottore?
ZELDA: M’ha detto: salve.
SCOTT: Non fare la stupida. Cosa t’ha detto? Dobbiamo saperlo, no?
ZELDA: Mi pare di sì.
SCOTT: Dillo, Zelda!
ZELDA: Presto, avremo un bebè.
SCOTT: Cristo, devo averle lasciate a casa…
ZELDA: Che cosa?
SCOTT: Le pastiglie di bromuro…
ZELDA: Scott! Ho detto bebè!
SCOTT: Bebè. Che suono familiare.
ZELDA: Dovremo chiedere a qualcuno.
SCOTT: Chiedere cosa?
ZELDA: Ma… come si fa, no? Forse non capisci. Qui a New York tutti sono pieni di teorie. Tutti sanno quale farmacia vende il miglior gin della città. Tutti sanno che le acciughe fanno passare la sbornia. Che l’alcool di legna si distingue dall’odore. Che all’Apollo si possono sentire i blues più strazianti di Harlem. Che c’è sempre un modo per procurarsi i posti per la partita dello Yale. Ma nessuno sa come si mette al mondo un bambino.
SCOTT: Puoi chiederlo a tua madre.
ZELDA: Bravo. Così pensa che non so come si fa.
SCOTT: Lo domanderò al mio agente letterario. Lui sa tutto sulle linee della metropolitana.
Fine musica e fine flash-back. Clinica Phipps.
ZELDA: Allora, il tuo ultimatum?
SCOTT: Se scrivi una commedia non potrà trattare di psichiatria. Non potrà essere ambientata sulla Costa Azzurra, né in Svizzera. Qualcunque cosa tu scriva, dramma o romanzo, dovrà essere sottoposta a me.
ZELDA: Non puoi umiliarmi così, Scott. Sono nauseata. Non posso accettare le tue idee di padrone.
Pausa. Ne approfitta il dottor Rennie per inserirsi.
RENNIE: Vorrei farvi una domanda. La signora Fitzgerald sta molto meglio e presto uscirà di qui. Dal momento che non mi sembra che possiate tornare a vivere insieme, non sarebbe più opportuno pensare… all’eventualità di una separazione?
ZELDA: Vuol dire… divorzio, dottor Ronnie?
SCOTT: No! Mi fa male lo stomaco al solo pensarci! Sarebbe come gettare Zelfa in un mondo che disprezza. E io sarei finito! È vero che non posso sempre stare tra Zelda e il mondo, e vederla costruire questa sua dubbia carriera con frammenti di materia vivente strappata alla mia mente, al mio sistema nervoso, ai miei reni, ai miei visceri… Forse il 50 per cento dei nostri amici e parenti le dirà in tutta convinzione, dottor Ronnie, che è stato l’abuso di alcool da parte mia a far impazzire Zelda. E l’altra metà le assicurerà che è stata la sua pazzia a indurmi a bere. Ma tutto questo non avrebbe nessun valore, per noi. Anche se tutti dicessero che faremmo bene a sbarazzarci l’uno dell’altra, la verità è che non siamo mai stati così disperatamente innamorati in vita nostra.
ZELDA: È vero: siamo disperatamente innamorati e l’essere disperatamente innamorati comporta un’esistenza disperata. (pausa) L’alcool sulle labbra di Scott è dolce, per me.
SCOTT: E io adoro le sue più stravaganti allucinazioni.

PRIMA PARTE

1- La tempesta
New York, 1923. Il molo. Sullo sfondo, un piroscafo della “Cunard Line” in partenza per la Francia. Sirena.
Musica: un charleston, “Non parlare, Lulù”.
Entrano Lord e lady Priestley, in abiti da viaggio molto inglesi.
Entra trafelato un cronista. Si guarda intorno. Lord e Lady Priestley scompaiono nel fondo.
Entrano Scott e Zelda, in abiti da viaggio molto americani. Ballano il charleston, come in una famosa foto della coppia. Il cronista cerca di interporsi, ma viene respinto.

CRONISTA: Il piroscafo sta per partire… ho pochissimi minuti a disposizione per l’intervista… signor Fitzgerald… Sono Samuel Drady, del “Sun” di Baltimora.
(Scott di ferma, lo guarda).
SCOTT: E io sono Francis Scott Fitzgerald, dell’Hotel Plaza di New York.
CRONISTA: Il giornale mi manda per fare qualche domanda alla Signora Fitzgerald.
ZELDA: A me? Oh, è la mia prima intervista, sono molto emozionata. Scott, caro, non te ne andare! Resta qui a darmi una mano.
CRONISTA: I nostri lettori vogliono sapere se è vero che lei è l’eroina dei romanzi di suo marito.
ZELDA: Diciamo che le somiglio. Mi sono riconosciuta nella Rosalind di “Di qua dal paradiso”. Rosalind è una verra maschietta americana. Ma la Gloria di “Belli e dannati” è molto più volgare e superficiale di me.
CRONISTA: Anche lei scrive, signora Fitzgerald?
ZELDA: Mi piace scrivere. Una volta ho chiesto a Scott di scrivermi un perfetto lieto fine per uno dei miei racconti, ma lui si è rifiutato. Dice che cominciano dalla fine.
SCOTT: Mia moglie viene da Montgomery, Alabama. È una città maledettamente lontana da New York.
ZELDA: Se vuoi dirmi che sono una provinciale del profondo Sud, be’… neanche la tua Saint Paul del Minnesota ha molto di New York.
SCOTT: Hai ragione. Quando siamo venuti qui sapevamo della città e della sua società quanto un emigrato dell’East End.
CRONISTA: Questo però non vi ha impedito di diventare il simbolo di New York e della nostra epoca… Mi descriva sua moglie, signor Fitzgerald.
SCOTT: Zelda è la persona più incantevole del mondo. È perfetta. Mi rifiuto di ampliare il concetto.
ZELDA: Non sono un po’ pigra, per te?
SCOTT: A me vai bene così. Sei sempre pronta a leggere i miei manoscritti, in qualsiasi ora del giorno e della notte. Sei bellissima. E poi, sbrini il frigorifero una volta alla settimana.
CRONISTA: Qual è la sua giornata ideale, signora Fitzgerald?
ZELDA: Pesche a colazione. Poi golf. Poi una nuotata. Poi semplicemente poltritre. Né mangiare né bere ma starmene tranquilla ad ascoltare suoni piacevoli. Una vacuità pressoché completa.
CRONISTA: La sera?
ZELDA: Una riunione brillante e numerosa. Una festa mobile.
CRONISTA: Che finisca con un tuffo vestita nella fontana di Washington Square, come qualche mese fa?
ZELDA: Perché no?
CRONISTA: O in una passeggiata per il Central Park sul cofano di un tassì?
ZELDA: Purché Scott sia sul tetto della macchina a cantarmi “Somebody loves me” di George Gershwin.
CRONISTA: È ambiziosa?
ZELDA: Non particolarmente, ma ho una quantità di speranze.
CRONISTA: Cosa si aspetta da sua figlia?
ZELDA: Mi auguro che Scottie…
SCOTT: È il nome che abbiamo dato a nostra figlia. Una decisione giudiziosamente narcisistica.
ZELDA: … faccia ciò che le pare e piace, sia ciò che le pare e piace, senza riguardi per quello che dice la gente. Preferisco che sia ricca piuttosto che sia un genio.
CRONISTA: Cosa farebbe se dovesse guadagnarsi da vivere?
ZELDA: Ho studiato danza classica. Cercherei di trovare un posto in un balletto. O di lavorare nel cinema. O tenterei di scrivere sul serio.
CRONISTA: Un’ultima domanda. Perché lasciate l’America?
SCOTT: Perché siamo stanchi delle feste, degli amici, del ritmo distruttivo della nostra vita.
ZELDA: Perché abbiamo speso 50.000 dollari in due anni e siamo pieni di debiti. In Francia potremo fare risparmi. E Scott potrà lavorare con più tranquillità.
La sirena del vapore. Il cronista esce. Zelda e Scott si ritirano nel fondo. Entra Ring Lardner, il poeta amico di Scott e di Zelda. Li saluta “dal basso”.
RING: (canta) Zelda, bionda regina d’Alabama
tu credi ch’io sia un sasso, una conchiglia
un arboscello, un figlio di coniglia:
quando impari a conoscere chi t’ama?
Quando infine il tuo cuore sarà stanco
d’ignorarmi e beffarmi crudelmente,
basterà che mi chiami con la mente
ed io di slancio volerò al tuo fianco!
(recita)
Al diavolo allora il tuo bel marito
al diavolo Scottie, la figliola,
insieme torneremo a Great Neck
dove gli uomini sono uomini
e l’alcool è per tre quarti acqua.
(canta)
Basterà che mi chiami con la mente
ed io di slancio volerò al tuo fianco.
Esce.
Il bar del piroscafo.
Musica: il celebre “Alexander’s Ragtime Band” di Irving Berlin. Lento ma sensibile rullio delle tavole della nave-palcoscenico. Scott e Zelda bevono.
SCOTT: Guarda. C’è Lady Sylvia Prietsley. Vuoi che la inviti a bere qualcosa?
ZELDA: Va bene. Però dicono che dorma con suo marito.
SCOTT: Non nel bar, in ogni caso.
LADY SYLVIA: Vi ho dato la caccia per tutta la nave. Voglio presentarvi a mio marito.
(Entra Lord Prietsley).
LORD PRIETSLEY: Avevo molto desiderio di conoscervi, Sylvia dice che vi amate pazzamente, c’è aria di tempesta non vi pare, io sono un vecchio lupo di mare che non ha perso né il pelo né il vizio, si rulla però.
LADY SYLVIA: Quando c’è una situazione d’emergenza, mi metto sempre la biancheria migliore: ma poi non succede niente.
LORD P.: Noi siamo stati a New York per salvarci dalla decadenza europea, scommetto che voi andate in Europa per raffinarvi, non fatevi illusioni, l’unica raffinatezza che conti oggi è il dollaro, siete sposati?
SCOTT: Il matrimonio è il solo concetto che non potremo mai eliminare dal nostro modulo di vita.
LADY SYLVIA: Ne parla con rassegnazione. Eppure si dice che voi due siate riusciti a fare un successo, del vostro matrimonio.
ZELDA: Oh sì. Il governo francese ci ha invitati a esporlo al Louvre.
LADY S.: Potremmo ordinare altro champagne, non vi pare?
LORD P.: Prima che cominci la tempesta, non si stappa una bottiglia di champagne col mare in burrasca, neanche se si tratta di un Pommery 1919, siamo a forza sette.
LADY S.: Penso che sarà un fiasco, questa bufera, dopo tutto il bene che ce ne hanno detto.
ZELDA: La teoria consiste nel non annegare, credo.
LADY S.: Mio marito dice che si è più sicuri su una nave che altrove, quando si è in mare e c’è tempesta.
Il palcoscenico balla vistosamente.
SCOTT: Ci siamo. Non aver paura, cara.
ZELDA: Non ho paura! Però potrebbe smettere di rullare, prima di colare a picco.
Rullio fortissimo.
LORD P.: È la peggiore da quando sono tornato da Algeri, quella volta passeggiavo letteralmente sulle pareti, fino a che i topi non si buttano in mare non c’è pericolo, m’è caduta la pipa, brutto segno.
ZELDA: Scott! Ho paura!
LORD P.: Non è strano come il pericolo renda la gente passionale? Ricordami che stasera devo cambiarmi di pipa, cara.
ZELDA: Credi che ce la caveremo, Scott?
SCOTT: (imitando il tono di Lord Prietsley) Il capitano dice che è un’onda di mare proveniente dalla Florida con un vento di novanta miglia orarie, la nave sbanda di 37 gradi, fino ai 40° non si capovolgerà comunque sia non possiamo farci niente, la cravatta m’è andata di traverso.
ZELDA: Mi fai una rabbia! Il mare è impazzito e tu te ne stai lì tranquillo a fare il verso a questo inglese rimbambito!
LADY S.: (risentita) Non c’è peggior inglese di chi non è inglese.
LORD P.: (gentleman) Non se la prenda con suo marito, Zelda, Bernard Shaw dice che dopo i trent’anni tutti gli uomini diventano mascalzoni.
LADY S.: Dopo i quaranta, caro.
LORD P.: Ho adottato la citazione all’età del nostro giovane amico…
ZELDA: Falli star zitti, Scott!
Rullio fortissimo. Tutti finiscono a terra. La nave balla, mentre cresce d’intensità il ritmo del ragtime. Poi, di colpo, silenzio. La nave non rulla più, colta nel mezzo d’una repentina bonaccia.
LADY S.: (rialzandosi) È finita. Tutto qui?
LORD P.: (con molta dignità) Andiamo in cabina a dormire, my dear, alla tua età il mare in bonaccia è più dannoso di una tempesta scatenata, la mancanza di emozioni potrebbe ucciderti, lo champagne mi torna in gola, e sì che non ho bevuto champagne.
(Escono).

2. Whisky e saliva.
Costa Azzurra, estate 1924.
Un piccolo aereo attraversa la scena. Scompare. Rumore d’aereo più vicino. Esce di corza Zelda, in abiti estivi. Guarda in alto. Rumore vicinissimo. Entra Scott, flemmatico, anche lui in abiti estivi.

SCOTT: Ecco di nuovo quel cretino del tuo innamorato.
ZELDA: Hai visto come ha volato basso?
SCOTT: Perché hai sposato uno scrittore di terra, se hai un debole per l’aviazione?
ZELDA: Ha sfiorato le tegole del tetto…
SCOTT: Finirà per accopparsi. Come quell’altro nell’Alabama.
ZELDA: Deve essere coraggiosissimo.
SCOTT: Vanitosissimo, vuoi dire.
ZELDA: Guarda! Ha lasciato cadere un pacchetto! (lo raccoglie. Contiene un messaggio. Lo legge in un francese stentato, americanizzato) “Toutes mes amitiés du haut de mon avion. Edouard Lozan”. Chissà che vuol dire.
SCOTT: Sono dei semplici saluti, senza fantasia. (di nuovo l’aereo. Rumore vicinissimo. Zelda saluta. Passato) Perché non ti procuri un dizionario francese? C’è una libreria proprio all’inizio di Saint Raphael.
ZELDA: È un’idea. Sai, Scott? Credo che Edouard sia un dio. Ti assomiglia. Solo che lui è una divinità solare, mentre tu sei lunare.
Scott scuote la testa, se ne va canticchiando “All alone” di Irving Berlin. Zelda si siede.
Cambio di luci. Un night sulla costa. Scoppia una versione di musica jazz a tre strumenti: una interpretazione tripudiante e ballabile di “Yes, we have no bananas”.
Entra il tenente Edouard Lozan, in divisa bainca dell’aviazione francese. Cerimonioso come un francese, si inchina a Zelda, la invita a ballare. Zelda e Edouard ballano, soli.
EDOUARD: Ti piace qui sulla Costa?
ZELDA: Mi piace tutto della Francia.
EDOUARD: Non puoi amare la Francia. Per amare la Francia devi amare un francese.
ZELDA: Sto imparando il francese. Ho comprato un dizionario, così potrò amare la Francia in modo più articolato.
EDOUARD: Devi venire ad Arles con me. Mia madre era di Arles. Le arlesiane sono bellissime. E tua madre?
ZELDA: Mia madre è vecchia e molto dolce. Mi ha viziata. Mi concedeva sempre tutto quello che volevo, cosicché è diventata mia abitudine piangere quando non posso avere qualcosa. Edouard…
EDOUARD: Sì?
ZELDA: Baciami. Non vuoi che mi metta a piangere, vero?
(Si baciano).
EDOUARD: Verrai nel mio appartamento?
ZELDA: No. Baciami ancora.
EDOUARD: È così americano, baciarsi. L’ultima volta che sono andato in America, c’erano ragazze che mi avrebbero squarciato in due con le labbra. Ma nient’altro.
ZELDA: Se vengo nel tuo appartamento, dovrò dire tutto a Scott?
EDOUARD: Perché? Sarebbe imprudente. Dobbiamo approfittare del nostro vantaggio. Verrai?
ZELDA: Dopodomani, quando Scott sarà andato a Nizza.
Si staccano. Fine musica. Zelda torna a sedersi. Edouard esce. Entra Scott, nervoso.
SCOTT: Tu sei malata, Zelda. Sei pazza. Se vedi ancora il pilota della morte ti lascio qui e me ne torno a New York.
ZELDA: Ieri sono stata da lui e…
SCOTT: Non dirmi niente, non voglio sapere niente di preciso. Non mi importa di quello che fai.
ZELDA: Edouard sta venendo qui. Vuole parlarti. Vuole parlarci. (pausa. Zelda cerca di abbracciare Scott) Non hai fatto altro che lasciarmi sola, Scott. Perché siamo arrivati a questo, cosa faremo, adesso?
SCOTT: Non toccarmi!
ZELDA: Hai paura che ti contamini?
SCOTT: Non ti sopporto quando fai la Traviata.
ZELDA: Hai lasciato che vedessi Edouard ogni giorno. Lo sapevi, no? Che lo incontravo sulla spiaggia, ogni giorno?
SCOTT: Sì, ma mi hai detto che inventavate nuovi cocktails…
ZELDA: È vero. Abbiamo imparato a mescolare whisky e saliva.
SCOTT: L’acqua di mare ti ha salato il cervello, Zelda.
(Entra Edouard, rigido).
EDOUARD: Vorrei parlarti, Scott. Davanti a Zelda.
SCOTT: Vuoi un cocktail? Zelda ha imparato a farli in modo eccellente…
EDOUARD: No. Voglio solo parlarti.
SCOTT: Parla, amico. Ma non ti esaltare. Siamo a terra, ora.
EDOUARD: Tua moglie non ti ama più.
SCOTT: E scommetto che ama te.
EDOUARD: È chiaro che il tuo matrimonio con Zelda ha fatto il suo tempo. Lei si è stancata.
SCOTT: Cosa ne dici, Madame Fitzgerald?
ZELDA: Edouard mi piace molto, Scott. Sono stata a letto con lui. Tu non mi vuoi più bene. È solo routine.
SCOTT: Fai progressi, con il francese.
EDOUARD: Tu non capisci Zelda. Continui a trattarla come una bambina irresponsabile. Come una malata.
SCOTT: Zelda ha la mente labile.
ZELDA: Scott, non ti permetto…
SCOTT: Zitta, cara. Sono io che devo permettere o non permettere.
EDOUARD: Con me sarà felice.
SCOTT: La novità: capisco. Ma Zelda e io siamo stati molto felici prima di venire su questa dannata Costa Azzurra.
EDOUARD: L’amour de famille.
SCOTT: Se tu e Zelda vi sposate, non sarà l’amour de famille?
ZELDA: Senza di me potresti riprendere il tuo lavoro. Riusciresti a scrivere, se non dovessi occuparti di me.
SCOTT: Ho paura che riuscirei a non scrivere anche senza di te.
EDOUARD: È inutile continuare. Devi dare il divorzio a Zelda, Scott.
SCOTT: Non scarto questa ipotesi. Ne parlerò con lei. (con uno scatto improvviso) Ora levatevi dai piedi, mangiaranocchie! (gli dà uno schiaffo)
ZELDA: Scott!
EDOUARD: Sono troppo più forte di lui, Zelda. Non posso battermi.
(Zelda si aggrappa a Scott, istericamente)
ZELDA: Hai capito, Scott? Non potresti neanche batterlo!
(Scott si libera di Zelda. Riacquista la calma).
SCOTT: Mi sono lasciato andare, ma non succederà più. Va bene, Edouard. Parlerò con Zelda, ti ho detto.
EDOUARD: Vi lascio. Resta inteso che aspetterò fino a quando saranno definiti i particolari. Ma tu, Scott, non abusare della situazione, solo perché continuate ad abitare insieme.
SCOTT: Stai tranquillo. Non ho mai cercato di fare l’amore con dei lombi asciutti.
(Edouard esce).
ZELDA: Mi dispiace non avergli permesso di romperti il muso!
SCOTT: Se avessi voluto, avrei potuto farlo a pezzi, il tuo aviatore. Ora stammi bene a sentire: tu starai chiusa a chiave nella tua stanza fino a quando non avrò fatto le valigie. Domani si va a Parigi. L’estate è finita.
La chiude in una stanza. Assolo del sassofono.

3- Ernest Hamingway & Company
Parigi, 1925. caffè “Closerie des Lilas”. Musica: un accordeon. Ernest Hemingway è seduto ad un tavolo del caffè, solo. Scrive. Entra Hal lo scocciatore.

HAL: Ciao, Hem. Cosa fai? Scrivi al caffè?
ERNEST: Sporco figlio di puttana, che ci fai qui, lontano dalla tua lurida zona?
HAL: Non essere offensivo solo perché vuoi fare l’eccentrico.
ERNEST: Porta fuori di qui quella bocca schifosa.
HAL: È un locale pubblico. Ho diritto di starci, né più è meno come te.
ERNEST: Perché non vai a Pigalle? Quello è il tuo posto.
HAL: Dio come sei noioso. Sono entrato solo per bere qualcosa, che c’è di male?
ERNEST: In America ti servirebbero e poi ti spaccherebbero il bicchiere in testa. (riprende a scrivere)
HAL: Immagino che tu sia diventato così importante che nessuno può rivolgerti la parola. (silenzio) Non pensi a nessuno, tu. Non immagini che anche gli altri possano avere dei problemi. (silenzio) Mettiamo che tu, Ernest Hemingway, volessi fare lo scrittore e te lo sentissi in ogni parte del corpo e però non ti riuscisse. Che faresti?
ERNEST: Hai provato a andare al cesso a cacare?
HAL: Non essere triviale. Non ti interessa il mio problema?
ERNEST: No.
HAL: Non t’interessano le sofferenze di un tuo simile?
ERNEST: Le tue no.
HAL: Sei inumano.
ERNEST: Già.
HAL: Pensavo che tu potessi aiutarmi, Hem.
ERNEST: Ti sparerei volentieri una rivoltellata. Ma la legge lo vieta.
HAL: Io per te farei qualsiasi cosa.
ERNEST: Allora comincia subito. Sloggia. Non vedi che sto lavorando?
HAL: Se mi chiedi cosa sto crivendo, me ne vado
ERNEST: OK. Cosa stai scrivendo?
HAL: Sto scrivendo quanto posso di meglio. Proprio come te. Ma è terribilmente difficile.
ERNEST: Non dovresti scrivere se non sai scrivere. Si può sapere perché ci piangi sopra? Va’ a casa. Trovati un lavoro. Impiccati. Ma non dirlo a nessuno. Tu non ce la farai mai a scrivere.
HAL: Perché dici questo?
ERNEST: Ti sei mai sentito parlare?
HAL: Ma io parlavo di scrivere.
ERNEST: Allora chiudi il becco.
HAL: Sei crudele. L’hanno sempre detto che sei crudele e vanesio e senza cuore. Io ti ho sempre difeso, ma ora basta.
ERNEST: Va bene. Senti: se non sai scrivere, perché non fai il critico?
HAL: Credi che dovrei?
ERNEST: Sarebbe bello. Allora sì che potresti scrivere. La gente leggerebbe quello che scrivi e ti farebbe tanto di cappello.
HAL: Credi che potrei essere un buon critico?
ERNEST: Questo non lo so. Però potresti essere un critico.
HAL: Così come lo dici, lo fai apparire un progetto attraente, Hem. Ti sono molto grato. È un’idea fantastica. E poi non manca il lato creativo.
ERNEST: Probabilmente la creazione è stata sopravvalutata. Dopo tutto, Dio ha fatto il mondo in soli sei giorni. Il settimo ha riposato: e i critici ne hanno approfittato per creare un po’ anche loro.
HAL: Giusto. Anch’io potrei scrivere qualcosa di mio, oltre che sugli altri.
ERNEST: Vedi? Facendo il critico potresti confrontarti con modelli elevati. Potresti imparare, insomma.
HAL: Hem…
ERNEST: Ecco, sei già un critico. Sei in grado di mettere il nome all’inizio della frase, invece che alla fine.
HAL: … devo dirti che trovo la tua prosa un po’ troppo nuda.
ERNEST: Peccato, le metterò le mutande.
HAL: Voglio dire che è troppo spoglia. Troppo scarna.
ERNEST: Cercherò di ingrassarla un po’.
HAL: Bada che non la voglio obesa.
ERNEST: La terrò sul peso medio.
(Ernest si alza).
HAL: Bene. Dove vai, adesso?
ERNEST: Da Gertrude Stein.
HAL: L’amica di Picasso? Posso venirci anch’io, Hem?
ERNEST: No.
Ernest esce a sinistra, Hal lo scocciatore a destra.
Casa di Gertrude Stein.
Gertrude è seduta su un divano con la sua amica Alice Toklas: di tanto in tanto l’accarezza, la sbaciucchia, la titilla. Alice resta impassibile. Davanti a loro, Scott.
Musica: “Un americano a Parigi” di Gershwin in sottofondo.
GERTRUDE: In questi giorni a Parigi c’è un sacco di ragazze e di giovanotti americani. Picasso dice: “Ils sont pas des hommes, ils sont pas des femmes, ils sont des américains”.
ALICE: Picasso è un lustrascarpe.
GERTRUDE: Cara, tu non capisci niente di pittura. Picasso è grande. Sai, Scott, cosa ha detto quando ha visto per la prima volta la foto di un grattacielo? “Pensa un po’ come si tormenta di gelosia un amante, mentre la sua bella deve fare tutte quelle scale per salire al suo studio sotto i tetti!”
(Scott ride).
SCOTT: Vorrei comprare un Picasso, ma non sono abbastanza ricco.
GERTRUDE: Devi scegliere: o compri quadri di Picasso o compri vestiti a tua moglie. Se non sei molto ricco non puoi fare tutte e due le cose. I vestiti delle donne costano cari. Guarda me: ho tanti Picasso, però non compro vestiti per Alice.
ALICE: Io porto sempre lo stesso vestito, come Gertrude porta sempre lo stesso Picasso.
SCOTT: Quello è un tuo ritratto, vero?
GERTRUDE: Me l’ha fatto Picasso.
SCOTT: Però non gli somigli.
GERTRUDE: Oh gli somiglierò, gli somiglierò, un giorno o l’altro. (entra Hemingway) Scott: questo è Ernest Hemingway. Tienilo d’occhio. Minaccia di diventare il più grande scrittore americano della vostra generazione.
SCOTT: Io sono il più grande bevitore americano della mia.
ERNEST: Ammiro molto i suoi libri, signor Fitzgerald.
SCOTT: Chiamami Scott. Anch’io ho letto i tuoi racconti e mi piacciono, Ernest.
ALICE: Hemingway è un delinquente. Somiglia a quei barcaioli del Mississippi che descrive Mark Twain.
GERTRUDE: Sai bene che ho un debole per Ernest, mia cara. Non me lo maltrattare. È il mio miglior allievo, no?
ALICE: È un allievo detestabile. Riesce bene ma non capisce. Ernest dovrebbe raccontare la sua vera vita, altro che quelle novelline melense. Ci sarebbe da ridere. È un tale delinquente.
ERNEST: Alice, non capisco per quale fottuto motivo…
GERTRUDE: Non te la prendere, Ernest. Alice non ha tutti i torti. La vostra generazione vale pochino. State a sentire. Ieri ho portato la mia vecchia Ford a riparare. L’ho affidata a un meccanico che aveva fatto la guerra. Come voi, più o meno. Questo ragazzo s’è mostrato poco “sérieux” nel suo lavoro: il suo “patron” se n’è accorto e gli ha detto: “Siete tutti una ‘génération perdue’”. Ecco cosa siete voialtri che avete fatto la guerra: una generazione perduta.
ERNEST: Lo pensi davvero, Gertrude?
GERTRUDE: Sì. Non avete rispetto per niente e per nessuno. Vi rovinate la salute a furia di bere.
ERNEST: Mi hai mai visto ubriaco, Gertrude?
GERTRUDE: No. Ma so che bevi.
SCOTT: Io mi ubriaco ogni notte.
ERNEST: Io…
GERTRUDE: Non discutere con me, Ernest. Non serve a niente. Io sono la più grande scrittrice americana dei nostri tempi, anche se siamo in pochi a saperlo. Zitto. Siete tutti una generazione perduta, proprio come ha detto il padrone del garage.
ALICE: Sei un coglione, Ernest.
GERTRUDE: (ridendo) Scott, Alice ce l’ha con Ernest perché una volta lui s’è scandalizzato per la nostra relazione. (abbraccia Alice, ma questa si libera, di malagrazia) Non ha capito la differenza che passa tra omosessualità maschile e omosessualità femminile.
ERNEST: Be’, devo ammettere che… avevo dei pregiudizi contro l’omosessualità. Conoscevo solo gli aspetti elementari del problema. Da ragazzo giravo con incredibili individui che avevano questo motto: “La fica va benone, ma per me ci vuole il culo”.
GERTRUDE: Vivevi in ambienti criminali e di pervertiti, Hem. Non sai niente di queste cose. L’atto commesso dagli omosessuali maschi è brutto e ripugnante. Dopo, sono disgustati di se stessi, bevono e si drogano per dimenticare ma non ce la fanno, ci ricascano, cambiano continuamente compagno e non riescono mai ad essere felici.
ERNEST: Dev’essere così.
SCOTT: E con le donne?
GERTRUDE: È diverso. Non facciamo niente di disgustoso, né di ripugnante. Dopo siamo soddisfatte e possiamo vivere insieme felicemente. Vero, Alice?
Alice non risponde, arcigna. Silenzio imbarazzato. Scott interviene, per rompere la tensione.
SCOTT: Oggi ho conosciuto un pittore di Londra, certo Wyndham Lewis. È l’uomo più schifoso che abbia mai visto.
GERTRUDE: Lo conosco. Io lo chiamo “il verme misuratore”. Viene a Parigi dall’Inghilterra per vedere un buon quadro. Toglie di tasca una matita e lo vedi che misura col pollice sulla matita. Studia il quadro, lo misura, lo guarda per benino, si scrive i colori. Poi torna a Londra, lo rifà, e non gli riesce. Gli è sfuggito il concetto informatore.
(Ernest si alza. Si rivolge a Scott).
ERNEST: Scott, andiamo a fare una capatina al Louvre.
Scott ed Ernest escono.
Appena usciti, Alice investe Gertrude.
ALICE: Che bisogno c’era di mettere le nostre cose in piazza? Non potevi farne a meno, vero? Ti senti simpatica, brillante, irresistibile… estroversa, eh? Be’, io ti trovo solo chiacchierona. E siccome mi hai rotto, me ne vado!
(Fa per uscire, Gertrude cerca di trattenerla).
GERTRUDE: No, tesoro… scusami. Non lo farò più… non te ne andare, tesoro, ti prego… non te ne andare!
Alice è uscita. Gertrude la insegue.

Parigi, 1926. Casa di Scott e di Zelda.
Entrano Scott e Ernest. Scott bene in continuazione.
Musica: “Tea for two” di Vincent Youmans.

SCOTT: In questo libro mastro ho segnato le entrate della mia attività letteraria. Guarda: questi sono i diritti d’autore… qui i diritti delle versioni cinematografiche… teatrali… cifre da capogiro, eh?
ERNEST: Mi fai vedere la colonna dei profitti come se fosse un panorama.
SCOTT: Lo è. È il panorama della nostra degradazione. Noi viviamo per questo, Ernest. Per fare soldi. Il denaro condiziona la società americana fin dal primo schizzo di sperma che ci dà la vita. Tu sai che Zelda… non mi avrebbe mai sposato, se non le avessi dimostrato che ero in grado di far soldi? Questo episodio mi ha sempre ossessionato. Tutto quello che ho scritto non è altro che una denuncia durissima della ricchezza come fonte di corruzione e di degradazione sociale! Altro che “frivolo” e “superficiale”, come hanno scritto certi critici! Guarda l’ansia carrieristica di Amory Blaine in “Di qua dal paradiso”. E la disintegrazione psichica e perfino fisica dei due “Belli e Dannati”! E Gatsy, che diventa gangster solo perché la sua ragazza in gioventù l’ha respinto per la sua povertà?
Pausa. Beve.
ERNEST: Come va il “Grande Gatsby”? Vende?
SCOTT: Mediocremente.
ERNEST: È un bel romanzo. Non dovresti scrivere quelle porcherie di racconti.
SCOTT: I romanzi non si vendono bene come i racconti. Devo scrivere racconti che si vendono.
ERNEST: Sì, ma ti sputtani a tirarli via così. Il tuo talento è naturale come il disegno della polvere sulle ali d’una farfalla. Ma se le danneggi, quelle ali, non ce la farai più a volare. Potrai solo ricordarti di quando volare non ti costava nessuno sforzo.
(Entra Zelda. È ubriaca)
ZELDA: Sempre insieme voi due, eh? Càstore e Polluce. Giulietta e Romeo. Sempre a spassarvela di qua e di là. Be’, voglio uscire anch’io, voglio andare in giro per Parigi con i miei amici…
SCOTT: Non te la sei spassata abbastanza sulla Costa Azzurra, Zelda?
ZELDA: Non toccare questo tasto, Scott. Sai benissimo che non era uno spasso. Era una cosa fottutamente seria.
SCOTT: Scusami. Non volevo offenderti. So quanto hai sofferto.
ERNEST: Ma di cosa cavolo parlate, voi due?
SCOTT: Zelda aveva conosciuti un aviatore francese, sulla Costa, che si era pazzamente innamorato di lei.
ZELDA: È una storia molto triste. Edouard voleva che andassi a vivere con lui, ma io rifiutai. Lui allora salì sul suo aereo bianco e cominciò a fare voli folli, sempre più folli…
SCOTT: Una serie impressionante di voli a vite, Ernest. Fino a che non si schiantò sulla sabbia.
ERNEST: Volete prendermi per il culo, eh? O avete bisogno di qualcosa di morboso per…
SCOTT: È tutto vero. Zelda è stata l’amante di un tenente dell’aviazione francese che s’è ucciso per lei.
ZELDA: L’aeroplano sollevò una nuvola di sabbia fine, poi ci fu un lungo silenzio bianco. L’aereo bianco era a pezzi sulla spiaggia bianca e anche lui era a pezzi, povero Edouard, nella sua divisa bianca e nel suo casco bianco… solo qui, nel petto, cominciava a inzupparsi di sangue rosso…
SCOTT: Ora basta, Zelda. Non eccitarti.
(Scott si volta per versarsi nuovamente da bere. Zelda si avvicina a Ernest e gli confida, in gran segreto)
ZELDA: Ernest: non pensi che Al Jolson sia come Cristo?
SCOTT: Se “Gatsby” non vende abbastanza, torno in America e vado a fare un po’ di cinema a Hollywood
ERNEST: Domani vado in Spagna. Tieni, Scott: è la prima copia do “Il sole sorge ancora”. È appena uscito.
SCOTT: Sono sicuro che è una buona cosa. Vedi, Ernest: io sono la tartaruga ma tu sei la lepre. Tu hai un tocco di genio che ti permette di creare cose importanti con facilità. Io non ho facilità. Ho facilità a essere mediocre, ma se decido di scrivere qualcosa di serio, vado piano, lento…
ZELDA: Ernest, perché nei tuoi racconti metti sempre il profumo che io usavo l’anno scorso?
ERNEST: Non so di cosa stai parlando, scema.
(Zelda sfoglia il romanzo di Hemingway)
ZELDA: Di che tratta il tuo romanzo? Aspetta, fammi indovinare: di corride, di tori, di massacri di tori, di cazzi di tori…
SCOTT: Zelda! Sei ubriaca! Non dire idiozie!
ZELDA: Sentilo come si riscalda il mio bel rammollito, quando gli tocco il suo Ernest! È uno scocciatore, il tuo Ernest, un menagramo, ti parla male di me e intanto si fa prestar soldi da te. È fasullo come un dollaro bucato, e tu lo sai benissimo!
(Esce)
EDRNEST: Tua moglie è pazza, Scott. Se non te la levi dalle palle, non combinerai mai niente di buono.
(Scott beve).
SCOTT: Posso parlarti come a un amico, Ernest? Devo chiederti una cosa molto importante. Promettimi che mi risponderai con la più grande sincerità.
ERNEST: Farò del mio meglio.
SCOTT: Tu sai che io sono stato a letto solo con Zelda.
ERNEST: No. Non lo sapevo.
SCOTT: Credevo di avertelo detto.
ERNEST: No. Mi hai detto un mucchio di cose, ma non questo.
SCOTT: È proprio di questo che voglio parlarti.
ERNEST: Ok, vai avanti.
SCOTT: Zelda una volta mi ha detto che… sono fatto in un modo tale che non potrò mai soddisfare una donna. È stato questo a sconvolgerla, i primi tempi. Ha detto che era una questione di misure. Devo riconoscere onestamente che da quando mi ha detto questa cosa, non mi sono più sentito lo stesso.
ERNEST: Uhm. Fa’ vedere.
SCOTT: Cosa?
ERNEST: Calati giù le brache e fammi vedere. (Scott esegue. Ernest osserva) Tira su, adesso. Sei perfettamente a posto. Sei normalissimo, non hai nessun difetto.
SCOTT: Sei sicuro, Ernest?
ERNEST: Ti ricordi di tutte quelle statue nude al Louvre? Be’, tornaci, guardale per bene e poi corri a casa e osservati allo specchio di profilo.
SCOTT: Può darsi che quelle statue non siano proporzionate.
ERNEST: Sono perfette. Quasi tutti ci metterebbero la firma.
SCOTT: Ma allora perché me l’avrebbe detto?
ERNEST: Per smontarti. È il più vecchio trucco del mondo per smontare la gente.
SCOTT: Io non so se…
ERNEST: Mi hai chiesto di dirti la verità e io te l’ho detta. Se non mi credi, vai da un medico.
SCOTT: Volevo che tu me lo dicessi sinceramente.
ERNEST: E adesso mi credi?
SCOTT: Sì e no.
ERNEST: In sostanza, non si tratta delle dimensioni che ha in stato di riposo: quello che conta è lo stato di erezione. Non è questione di misure: è questione di angolazione. Comunque, ci sono dei modi per penetrare più a fondo. Puoi adoperare un cuscino, per esempio. Sì, le metti un bel cuscino sotto le chiappe e… capito?
SCOTT: C’è una ragazza, un’attrice di 18 anni, che è molto gentile con me. Ma dopo tutto quello che ha detto Zelda…
ERNEST: Fregatene. Zelda è matta. Tu sei perfettamente normale. Sta’ tranquillo e fa’ quello che vuole la ragazza. Zelda vuole distruggerti.
SCOTT: Tu non sai niente di Zelda.
ERNEST: Può darsi. Punto e basta. Tu mi hai fatto una domanda e io ti ho dato una risposta onesta. Ora devo andare.
SCOTT: Aspetta ancora un momento, Ernest. Mi hai davvero rincuorato. Hai ragione tu, devo fregarmene di quello che dice Zelda. Forse è davvero matta. Sai? Vuole fare la ballerina classica. S’è messa in testa che vuole prendere lezioni di danza da una certa russa… come se avesse nove anni.
ERNEST: Bravo, Scott. Fregatene di quella stronza.
SCOTT: Aspetta ancora un attimo. Come fa quella “Preghiera del niente” che mi hai recitato una volta? Ridimmela, per favore.
ERNEST: O nada nostro che sei nel nada
sia nada il nome tuo
nada il regno tuo
e sia nada la tua volontà
Dacci oggi il nostro nada quotidiano
e nada a noi i nostri nada
come noi li nadiamo ai nostri nada
e non nadare noi in nada
ma liberaci dal nada pues nada
Ave nada pieno di nada
il nada sia con te. (ridono) Ciao, Scott. (Ernest esce. Scott beve)

 

SECONDA PARTE

1. Parigi, 1930. Casa di Scott e di Zelda.
Nell’appartamento è stata installata una grande specchiera barocca. Davanti allo specchio, una sbarra per esercitazioni.
Musica: un motivo per balletto di Schuman.
Zelda si esercita alla sbarra. Esegue piegamenti. Di tanto in tanto si stacca dalla sbarra, fa dei passi di danza.
Zelda non cesserà di ballare nel corso di tutta la scena.
Entra Scott. Zelda esegue un pas-de-Bourrée.

SCOTT: Questa musica mi fa diventar matto, Zelda. Il tuo Schuman…
ZELDA: Preferisci lo shimmy, caro?
SCOTT: Qualsiasi cosa a questo stillicidio mortale. Non mi riesce di concentrarmi neanche per un attimo…
ZELDA: Ma io sto lavorando, Scott.
SCOTT: Lo so, lo so! Ma il tuo ritmo è maniacale.
ZELDA: Sai quante ore al giorno dormono, i ballerini? Quattro, dice Madame Egorova. Vedi questi piegamenti? Lei ne faceva quattrocento ogni sera prima di addormentarsi, nella sua camera gialla di Pietroburgo.
SCOTT: Zelda, cara. Sono anni, ormai, che dura questa storia. Quel dannato specchio fa somigliare questo appartamento a un bordello di terza categoria. Tu non ti curi più di niente, tant’è vero che abbiamo dovuto rimandare Scottie in America, dai tuoi. Stai sempre in quello studio a far piroette, e va bene. Ma che tu debba tornare qui e ricominciare a zampettare…
ZELDA: È un pas-de-bourrée, ignorante.
SCOTT: Cosa è?
ZELDA: Il pas-de-bourrée, non so se riuscirai a capirmi, è una figura coreografica che imita il passo dell’oca solo come suggestione ritmica, ma dopo infinite e costanti variazioni, il naturalismo… si trasforma in astrazione geometrica… mi segui?… il corpo si sposta in avanti come su un busto a rotelle… e l’anima è appesa alle note…
SCOTT: Smettila con questo fumoso misticismo, Zelda. Non c’è niente che non si possa esprimere.
ZELDA: Per me è chiarissimo. Il fatto è che tu sei ottuso. E non ami la danza.
SCOTT: La danza non piace a nessuno. Solo ai danzatori e ai sadici.
ZELDA: Carina questa battuta. La metterò in uno dei miei racconti.
SCOTT: Ti rendi conto, Zelda, che i tuoi infernali pas-du-bourrée ti hanno allontanata da tutti gli amici?
ZELDA: Non sei contento? Potresti lavorare in pace. Invece vai a bere con le folle del Ritz Bar per festeggiare in dolce compagnia il vuoto della città.
SCOTT: Che vuoi dire? Che intendi per “dolce compagnia”?
ZELDA: Mi hanno detto che vai sempre in giro con quell’attricetta del cinema. Come si chiama? Ah, sì: Lois Moran.
SCOTT: Lois Moran è una bambina. Non ha neanche 18 anni. E poi non è un’attricetta. È una sicura promessa di Hollywood.
ZELDA: Comunque sia, te la porti dietro. Ha preso il posto del tuo inseparabile Ernest, ora che se n’è tornato a dar cornate in Spagna.
SCOTT: Ti ripeto che Lois è una bambina. Non mi piacciono le ragazzine. Sanno di sapone medicinale e di menta. Quando ballo con lei, mi pare di spingere una carrozzella.
ZELDA: Ipocrita. T’ho sentito, una sera, quando parlavi con lei. “Si dice che il suo corpo sia solcato dalle più belle vene azzurre del mondo. E che i suoi seni siano come un dessert di marmo…”
SCOTT: Sciocchezze. Sarò stato ubriaco.
ZELDA: Questo vuol dire essere normale, per te.
SCOTT: Colpa tua. Perché non esci più con me?
ZELDA: Per ubriacarci insieme? No. Preferisco la danza. Diventerò una grande ballerina. Lo giuro sulle vene azzurre del bianco marmo di Lois Moran.
SCOTT: Sei sempre sicura di riuscire?
ZELDA: Ho fatto enormi progressi. Forse entrerò nel corpo di Ballo di Diaghilev. Madame Egorova mi ha proposto di debuttare come solista nel “Faust”, al San Carlo di Napoli. È una particina, ma…
SCOTT: Hai accettato?
ZELDA: Certo. Cosa vuoi che faccia, qui? Che ti continui a sciacquare i bicchieri?
SCOTT: La nostra vita privata non esiste più.
ZELDA: Tanto tu non sei mai in casa. Devo pur trovare un modo per tenermi occupata. La tua Lois è una promessa del cinema? Be’, io sono una promessa della danza classica.
SCOTT: Sì. A trent’anni suonati.
ZELDA: È un handicap, non dico di no, ma…
SCOTT: Lascia stare, Zelda. Usciamo. Andiamo a bere qualcosa al Ritz.
ZELDA: No. Sto male, quando bevo. L’altra volta ho dovuto farmi fare un’iniezione di morfina, ti ricordi? Tu, piuttosto, dovresti piantarla di “faire des cadavres”…
SCOTT: “Faire des cadavres”?
ZELDA: È un’espressione d’argot. Significa “scolar bottiglie”. Non la conoscevi?
SCOTT: No. Vedi, Zelda… prima bevevo quando avevo finito di lavorare. Ora bevo per lavorare.
ZELDA: Però non lavori lo stesso.
SCOTT: Già. Tu invece balli, e scrivi racconti che poi mi tocca firmare per farceli pagare di più. E il mio nuovo romando non va avanti d’una virgola. Sai che m’inceppo sempre di più davanti all’ortografia? (beve)
ZELDA: Povero Scott. Povero fessacchiotto mio.
SCOTT: Vuoi che ti descriva una mia serata-tipo, Zelda? Ecco. Me ne sto a ciondolare al banco d’un bar con gente varia. Verso le 11, generalmente, crollo, con gli occhi pieni di lacrime o con il gin che mi arriva fino alle orecchie. Quando raggiungo questo stato, rivelo ad amici e conoscenti scarsamente interessati che non ho un solo amico al mondo e che comunque non mi frega di nessuno – te compresa – alludendo anche ai presenti, dopodiché i presenti tendono ad essere sempre meno presenti e alla fine mi sveglio in stanze sconosciute di case sconosiute.
ZELDA: Quando non t’infilano in un tassì e ti spediscono a casa come un cesto di biancheria da lavare.
(Scott beve. Ha uno scatto improvviso).
SCOTT: Insomma, non vuoi più uscire con me?!? A che serve avere una moglie? Se una donna è buona solo per andarci a letto, be’, ce ne sono tali e tante disponibili solo per questo…
ZELDA: Non mi pare che le tue prestazioni coniugali siano così frequenti o brillanti, Scott…
SCOTT: Ma come si fa a scopare con una che non sta ferma un momento? Devo inserirmi tra un “pas-de-bourrée” e una “capriole”?
ZELDA: Balle. A che serve avere un marito che non è neanche un marito?
SCOTT: Ora ricominci con le volgarità da battona di New Orleans.
ZELDA: La storia col tuo amico Ernest non m’è mai andata giù.
SCOTT: Ecco. Me l’aspettavo.
ZELDA: T’ho sentito, una notte. Parlavi in sonno. Eri tornato a casa dopo una pantagruelica sbronza con Hemingway. Sai cosa dicevi? “Basta, Ernest… mi fai male così…”
SCOTT: Non si può dire che brilli per coerenza. Prima di accusi di farmela con la ragazzina e poi riattacchi con Ernest…
ZELDA: Ho sempre pensato che ci fosse della checcaggine, nel vostro rapporto.
SCOTT: Basta, Zelda! (le dà uno schiaffo. Zelda cessa di ballare. Lo guarda con espressione allucinata) Perché non ti guardi un po’ allo specchio, hai gli occhi infossati d’una maniaca e il corpo ossuto della ballerina stagionata! Fai pena! Ti scrocchiano le giunture, quando tenti di fare la spaccata!
ZELDA: (isterica) Checca! Fottutissima checca!
SCOTT: Se continui così ti farò rinchiudere in manicomio!
(Zelda ricomincia a ballare)
ZELDA: Sei invidioso di me!... “Faillé”… “capriole”… “faillé”… Tu sai che sono una grande ballerina… “soubresaut”… “faillé”… “coupe”… “ballonée”, “ballonée”… “paso-de-basque”… “deux tours”… Quando ballo riesco a scacciare i dèmoni che mi perseguitano… Madame Egorova mi ha dato la più grande gioia del mondo… Madame è come un raggio di sole che scintilla su un cristallo… è una sinfonia di profumi… (balla sempre più freneticamente) “Faillée, capriole, faillée”… Che tu possa crepare, Scott! Che tu possa crepare! “Faillée”… “capriole”… “faillée”… “saut-sur-les-pointes!”.
(Salta sulle punte, scossa da un riso irrefrenabile, poi si abbatte a terra).

2. L’eczema
Svizzera, 1930. Una clinica. Entrano due dottori: il primario, dottor Forel, e il giovane dottor Ladislau. Inutile dire che, come proiezioni mnemoniche di Zelda e di Scott, sono in tutto e per tutto simili al dottor Meyer e al dottor Rennie della clinica Phipps. Il dottor Ladislau legge al dottor Forel il referto di Zelda Fitzgerald.

LADISLAU: (leggendo) Referto clinico della signora Zelda Fitzgerald. Al momento del ricovero a “Les Rives” di Prangins la signora Fitzgerald ha dichiarato che non era stata malata e che era stata condotta di forza in clinica. Ha ripetuto quotidianamente che voleva tornare a Parigi per riprendere le lezioni di danza, in cui credeva di poter trovare l’unica soddisfazione della sua vita. Le visite del marito sono state spesso occasioni di violente discussioni, provocate soprattutto dai tentativi del marito di ragionare con la paziente e di respingere le insinuazioni della signora, che lo sospetta di omosessualità. La signora Fitzgerald è al momento affetta da una particolare forma di eczema che ha reso il suo corpo una piaga dolorante. L’eczema è finora risultato refrattario a qualsiasi cura, per cui se ne deduce l’origine nervosa. La paziente è sottoposta a psicoterapia basata sull’analisi dei fattori che l’hanno condotta all’attuale stato patologico.
Il dottor Ladislau esce. Entra in carrozzella, spinta da una infermiera, Zelda. È fasciata in tutto il corpo. L’infermiera esce. Forel inizia l’analisi.
ZELDA: Fino a quando durerà, dottor Forel? Durerà sempre?
FOREL: Non per molto. Il dottor Ladislau mi ha riferito che intere zone sono guarite.
ZELDA: Se sapessi che cosa ho fatto per meritare tutto questo, potrei accettarlo con serenità.
FOREL: Non c’è nessuna ragione metafisica.
ZELDA: Per favore si metta alla mia sinistra. A destra non la vedo.
FOREL: Il suo disturbo è di origine nervosa: l’eczema è in relazione con il rossore. Da ragazza arrossiva facilmente?
ZELDA: Non ho mai avuto motivo di arrossire, né da grande né da piccola.
FOREL: Mi parli di sua madre.
ZELDA: La rivedo sempre seduta alla luce del sole del mattino, con una domestica negra che le pettina i lunghi capelli grigi. Mia madre è stata sempre molto buona con me.
FOREL: E suo padre?
ZELDA: Mio padre è giudice. È un intellettuale serio, impavido, taciturno. Un uomo di grande integrità. Avevo un enorme rispetto per lui. E una certa sfiducia.
FOREL: Quale parte ha avuto la bambina nella sua vita?
ZELDA: Scottie è cosa fatta, ormai. Voglio fare qualcos’altro.
FOREL: Per esempio?
ZELDA: Vorrei scavarmi una fossa degli orsi e sedermici dentro e fare marameo alla gente che mi porterà carote.
FOREL: Sta facendo della lettaratura orale. Perché non scrive?
ZELDA: Vorrei scrivere un bel libro tenero e commovente, fondato sulla filosofia delle canzoni popolari.
FOREL: Lo scriverà?
ZELDA: Per ora ho solo il titolo: “Lasciami il valzer”.
FOREL: Ha molti amici?
ZELDA: Buon Dio, no. Non c’è nessuno di cui diffidi come dei miei amici. Oh no. (pausa) ho pensieri gatto che danno la caccia a pensieri topo e a volte catturano tutti i pensieri topo. Leggo Eschilo per prendere sonno.
FOREL: Vuole prendermi in giro? Perché sorride sempre?
ZELDA: Non me ne accorgo. È terribile avere un angolino del cervello che non funziona. Me lo metterà a posto, dottor Forel?
FOREL: Dipende molto dal suo aiuto.
ZELDA: Sa cosa penso, dottore? Di dividere la sorte delle donne del mio tempo, che hanno sfidato gli uomini a battaglia.
FOREL: Crede proprio di essere in battaglia?
ZELDA: Guardi le mie ferite.
FOREL: Lei ha molto sofferto, ma molte donne hanno sofferto per il fatto di credersi – erroneamente – degli uomini.
ZELDA: Invidia del pene? Tutta qui la malattia? Non è così facile, dottor Forel. Non ho mai avuto invidia del pene: semmai ho avuto invidia delle donne che avevano più uomini; più uomini, più.
FOREL: Nei rapporti sessuali con suo marito, cos’è che non andava?
ZELDA: Non lo so. Non me lo sono mai chiesto. Teoricamente io non sono monogama, ma Scott e io siamo stati troppo assorbiti nel nostro amore reciproco. Questo ci ha resi monogami. (pausa. Il dottore spinge la carrozzella verso l’uscita) Dottore: io credo di sapere cos’è il mio eczema, ora. Non riesco a raccapezzarmi in tutta questa triste esperienza, dato che non so quanto è stato casuale e quanto è stato voluto: ma so che, se l’espansione esiste, si sta verificando. L’eczema è la mia espansione.
Escono.

Clinica svizzera, 1931
Musica: “The man I love”, di George Gershwin.
Scott e il dottor Laidslau

DOTTORE: A mio avviso sua moglie è già in grado di esaminare le frontiere della coscienza. Questo non vuol dire che sia clinicamente guarita, ma è in netto recupero.
SCOTT: L’eczema?
DOTTORE: È praticamente scomparso.
SCOTT: Non faccio altro che chiedermi quale parte io abbia avuto nella malattia di Zelda. Il nostro rapporto è stato splendido ma distruttivo. Ci siamo distrutti a vicenda. Forse io ho distrutto la donna che amo…
DOTTORE: La smetta di dare la colpa a se stesso. È qualcosa che si è verificato circa cinque anni fa. Forse poteva ritardarlo, ma non avrebbe potuto comunque impedirlo.
Entra il dottor Forel.
SCOTT: (a Forel) Dottore: il padre di Zelda, il giudice Sayre, è gravemente malato. Lei pensa che potrò riportare Zelda in America?
FOREL: Credo di sì. Il caso di sua moglie può essere sintetizzato come una reazione ai suoi sentimenti d’inferiorità. La signora ha nutrito ambizioni che si sono rivelate pure illusioni e che le hanno provocato uno scompenso psichico. La prognosi è favorevole, nei limiti in cui si riesce ad evitare conflitti.
SCOTT: Quell’orribile eczema… può ritornarle?
FOREL: Sì. Potrebbe essere un segnale di una nuova crisi.
(Escono Forel e Ladislau. Entra Zelda. È sbendata. Sembra in piena forma. Scott e Zelda si abbracciano).
ZELDA: Scott. Fessacchiotto mio.
SCOTT: Tesoro. Ho molte novità da raccontarti.
SCOTT: Aspetta. Prima voglio leggerti la letterina che ti stavo per spedire. (legge) “Mio carissimo e preziosissimo Monsieur
Disponiamo di un tipo di maniaca che sembra essere stata ispirata da aberrazioni erotiche nei tuoi confronti. È persona di ottimo carattere, molto amante della vita familiare, desiderosa di lavorare. È bionda, occhi verdi: vorrebbe corrispondere con giovanotto raffinato del tuo tipo fisico, a scopo matrimoniale. Segni particolari: una lieve tendenza alla schizofrenia dietro l’orecchio sinistro”.
(Scott ride. Si abbracciano di nuovo).
ZELDA: Dimmi le tue novità, ora.
SCOTT: Si torna in America. Andremo a Montgomery dai tuoi. Ti prenderai un luogo periodo di riposo.
ZELDA: Potrò riabbracciare Scottie!
SCOTT: Scottie, tua madre… e tuo padre.
ZELDA: Ma è meraviglioso, Scott! Ho sempre detto che sei un mago. Vieni qui col tuo cilindro bianco e ne estrai un elefante…
SCOTT: Non è ancora tutto. Ho avuto un’offerta da Hollywood per scrivere una sceneggiatura. Mi pagano mille dollari alla settimana. Ho accettato.
ZELDA: Mi lascerai, allora. Questo mi piace meno.
SCOTT: Se il film dovesse avere successo… tienti forte, Zelda: potrei guadagnare 75.000 dollari!
ZELDA: 75.000 dollari! Ma è una somma enorme! Potremmo costruirci una casa… voglio un grande cubo spoglio, con finestre nude che incorniciano il mondo in una fredda, impersonale rigidità. All’interno deve essere tutto giallo, come la camera da letto della Egorova, a Pietroburgo. Avremo tutti i bambini che potremo e li chiameremo “Dementia Praecox Fitzgerald”. Dio che macabro!
SCOTT: Zelda, cara… ti prego, non esprimerti così… liberamente quando sei con i medici. Dubito che possano capirti. Con me è diverso, lo sai bene. Io sono abituato al tuo personalissimo modulo di comunicazione. Non ho mai avuto difficoltà a seguirti. Ma un estraneo potrebbe equivocare.
ZELDA: Cosa stai cercando di dirmi? Che sono matta anche quando sono normale?
SCOTT: Il contrario. Per me sei normale anche quando sei matta.
ZELDA: Mettila nel tuo romanzo, questa frase. Gli darai più pathos. Sputtanata una volta di più.

3. Tenera è la morte
Montgomery, Alabama, 1931.
Musica: un blue cantato da Bassie Smith.
Antony Sayre, il padre di Zelda, è a letto, nel fondo.
In primo piano, Minnie Sayre, madre di Zelda, e Scottie: Scottie è sui dodici anni. Prepara l’albero di Natale insieme alla nonna.

MADRE: Non caricarlo così. Non devi abusare delle cose.
SCOTTIE: Ma io non faccio del male al mio albero!
MADRE: Mi sembra di sì. Crollerà, con tutto questo peso.
SCOTTIE: Come sta il nonno, oggi?
MADRE: Non ha perso il suo spirito. Mi ha detto che gli sarebbe piaciuto fare un giro in automobile per vedere i negri seduti sotto i porticati, e per sentirli cantare. “Se devo proprio andare in paradiso – ha detto – che ci sia almeno una buona musica, ad accompagnarmi”.
SCOTTIE: Morirà, nonna?
MADRE: Temo proprio di sì, Scottie.
(Entra Zelda).
ZELDA: Povera mamma. Hai dato la vita per lui.
MADRE: Mio padre acconsentì che ci sposassimo solo quando seppe che lo zio di tuo padre si trovava da 32 anni al senato degli Stati Uniti. E che suo fratello era un generale sudista.
SCOTTIE: Com’è accaduto che l’hai sposato?
MADRE: Ha voluto sposarmi lui. Io avevo molti ammiratori.
SCOTTIE: Davvero, nonna?
MADRE: Certo. Ce n’era uno che voleva regalarmi una scimmia. Era francese e bellissimo. Un altro mi mandò un porcellino dalla sua piantagione. Un terzo un coyote dal Nuovo Messico. Un quarto beveva: se lo sposò la cugina Lil.
PADRE: (debolmente) Zelda... (Zelda va al capezzale del padre) Sono contento che tu sia tornata.
ZELDA: Anch’io sono contenta, papà.
PADRE: Hai intenzione di trattenerti un po’?
ZELDA: Sì. Mi piace sempre tanto, la mia Montgomery.
PADRE: Sapevo che ti piaceva. Non ho mai capito come hai potuto restare lontana da qui tanto a lungo. Scott dov’è?
ZELDA: A Hollywood, papà. Scive per il cinema.
PADRE: Scott non dovrebbe mischiarsi con quella roba. È uno scrittore, non è mica un fotografo. (alla moglie) Minnie… quell’assegno da mille dollari che t’ho dato, per l’impresario delle pompe funebri… se non muoio, lo voglio indietro.
MADRE: Sì, Anthony…
ZELDA: Papà. Ho molte cose da chiederti. Prima non ero sicura che avresti saputo rispondermi.
PADRE: E ora sì, non è vero? Ora sono vicino alla verità. (chiude gli occhi) Ho bisogno di dormire, piccola…
ZELDA: Dormi, dormi, papà.
Il giudice Sayre riapre gli occhi.
PADRE: No. Hai detto che volevi domandarmi qualcosa, mi pare.
ZELDA: Pensavo che forse sei in grado di dirmi se il nostro corpo ci viene dato come antidoto dell’anima. Forse sai dirmi perché il nostro corpo cede e si ammala, quando dovrebbe dar sollievo alla mente torturata. Forse sai anche perché, quando siamo tormentati nel corpo, il rifugio dell’anima ci abbandona. (il giudice non risponde) Perché passiamo tanti anni a logorare il nostro corpo per nutrire d’esperienza la nostra anima, e poi scopriamo che la nostra mente si rivolge in cerca di sollievo al corpo esaurito? Peché, papà? (pausa)
PADRE: (con un fil di voce) Chiedimi qualcosa di più facile, Zelda.
Muore. Zelda gli chiude gli occhi.
Riemerge, fortissimo, il motivo del blue cantato da Bessie Smith. Scompare il letto nel fondo. Escono Zelda, Scottie, la madre di Zelda.
Luce su Scott in primo piano.
SCOTT: Quando raccontai al mio amico Mencken l’idea di “Tenera è la notte”, lui mi disse: - Be’, è Zelda, ancora una volta. Io mi arrabbiai. Gli replicai che era il più stupido giudizio di critica letteraria che avessi mai sentito. “Ma come – urlai – io ti svelo i miei pensieri più intimi e tu rispondi con… Zelda!” (pausa) Mencken aveva ragione. Facciamo due o tre esperienze commoventi in vita nostra: esperienze così grandi e importanti che lì per lì ci sembra che nessun altro sia mai stato tanto coinvolto e colpito e abbagliato e stupefatto e battuto e spezzato e salvato e illuminato e premiato e umiliato in quel modo prima di allora. Poi impariamo il nostro mestiere, bene o meno bene, e raccontiamo le nostre due o tre storie – ogni volta in un nuovo travestimento – magari dieci volte, magari cento, finché la gente sta ad ascoltare. Che si tratti di una storia accaduta vent’anni fa o soltanto ieri, deve partire da un’emozione – un’emozione che mi sia prossima e che io possa capire. Quello che ti preme, è di prender parte a un paio di buone corse, quando c’è la folla in tribuna. Le mie entrate nel 1932 sono scese a quindicimila dollari: meno della metà di quanto avevo guadagnato l’anno scorso… e così bevo. Bei tempi, quando bevevo per qualche ragione. Ora bevo tanto che ho dimenticato per quale ragione bevo… E Zelda… (entrano Zelda e Scottie. Zelda ammira l’albero di Natale. Ha sulle labbra il solito sorrisetto strano) Zelda ha ricominciato a sorridere in quel modo strano. Oh Zelda. Se hai deciso di riprendere il tuo incontro di lotta con un pilastro d’aria… preferirei non assistere.
ZELDA: (a Scottie) Vedi, Scottie, le decorazioni dell’albero sono state messe via per tanto tempo che hanno perso tutto il loro sex-appeal. (Scottie la guarda, perplessa e un po’ intimorita) Però sono intatte e perciò non valeva la pena comprarne altre. Non c’è niente di più bello di queste palline lucenti come gioielli. Si capisce perché i selvaggi fanno pazzie per le pietre colorate… (guarda Scottie e, d’impulso, l’abbraccia) Oh Scottie… è una gran gioia stringere il tuo lungo corpo delicato… e vedere come i tuoi capelli chiari smorzano la luce delle fiamme… (Scottie si libera dall’abbraccio e istintivamente si rifugia dal padre)
SCOTT: Non stringerla così, Zelda… non c’è bisogno di fare il judo, per abbracciarla.
ZELDA: Perché? Cos’è che non va?
SCOTTIE: Papà ha ragione. Mi fai mancare il fiato.
ZELDA: (si guarda le mani) Ho capito. L’eczema. È tornato l’eczema sulle mie mani. Presto si allargherà in tutto il corpo, come in quella lurida clinica svizzera. Sarò gonfia di pus fino agli occhi.
SCOTT: Andiamo, Zelda, sai bene che non possiamo permetterci delle scene...
ZELDA: Voi due mi detestate, lo so.
SCOTT: Zelda!
ZELDA: Vi faccio schifo, eh? Avanti, ditelo che vi faccio schifo! Ditelo che sono una povera pazza inguaribile! Cosa credete, che non lo legga nei vostri occhi nemici, nei vostri occhi gialli, nei vostri occhi tigri… (con uno scatto, rovescia l’albero di Natale, fa cadere a terra le palline, le calpesta. Poi si prende la gola con le mani, fa per strozzarsi. Scott corre da lei)
SCOTT: Scottie! Presto, telefona all’ambulanza!
Scottie esce di corsa. Scott lotta con Zelda, riesce a liberarla dalla morsa delle sue stesse mani.
Sirena dell’autoambulanza.
La sirena è in realtà il lancinante assolo del sassofono che inizia la “Rhapsody in blue” di Gershwin.
Scott trascina via Zelda. Rientra Scottie. Piangendo, Scott porta fuori scena i resti dell’albero di Natale.

4. Hollywood la rossa
Hollywood, 1937. Coconut Grove Club
Musica: continua la “Rhapsody in blue”.
In piedi, sedute, in movimento o ferme, cinque persone – l’attrice, l’attore, il produttore, il sindacalista, la sceneggiatrice – conversano, in gruppi intercambiabili. Si sentono brandelli di discorsi, coperti a tratti dalle note della rapsodia.

ATTORE: Mac crede che un marxista sia uno che ha frequentato la “Saint Mark School“.
Musica.
PRODUTTORE: Il regista non è tutto nel cinema di oggi. Era così ai tempi in cui si girava col polsino.
SINDACALISTA: Col polsino?
PRODUTTORE: Il regista si scriveva la trama del film sul polsino. Non esisteva una sceneggiatura. Gli sceneggiatori erano buoni a nulla: giornalisti, disoccupati. Stavano dietro il regista e buttavano lì proposte. Il regista confrontava le proposte con la traccia scritta sul polsino e decideva se inserirle o no nel film che stava girando.
Musica.
SCENEGGIATRICE: (indica il produttore) Irving Thalberg è un genio, ma è ignorante come una talpa. L’altro giorno gli stavo parlando della pittura di El Greco. Lui mi interrompe e mi fa: “Senti, questo tuo greco, perché non me lo porti a cena domenica sera?”
Musica.
PRODUTTORE: Quando ci fu il sonoro, fui costretto ad assumere registi teatrali. I registi del muto non me lo perdonarono mai.
(Musica)
ATTRICE: Dove andremo quest’estate? A Capri o a Parigi?
ATTORE: A Caprigi.
Musica.
PRODUTTORE: Fu così che inventammo un nuovo mestiere, lo scrittore di cinema. Mandai a prendere in tutta l’America vagoni di soggettisti e di sceneggiatori. Credevo che fossero tutti geni e invece mi diventarono comunisti, dal primo all’ultimo.
Musica.
ATTORE: Ho avuto una discussione con Gary sui capelli di Picasso. Io dicevo che li ha ricci. Non mi dire che è calvo, non potrei sopportarlo.
Musica.
PRODUTTORE: Gli scrittori sono come bambini. Non ho mai pensato di essere più intelligente di uno scrittore, ma la sua intelligenza appartiene a me, perché io la pago e so come utilizzarla. E adesso, voi sindacalisti avete scombussolato tutti i miei collaboratori.
SINDACALISTA: Perché voi produttori non sostenete l’associazione anti-nazista?
PRODUTTORE: Ci mettete i bastoni tra le ruote con gli sceneggiatori, ma perdete il vostro tempo. Gli scrittori sono come bambini: anche in tempi normali, non sanno concentrarsi sul lavoro.
SINDACALISTA: Sono i braccianti di questo latifondo che è Hollywood. Coltivano il grano ma non prendono parte al banchetto.
PRODUTTORE: Sono rossi. Ma per fortuna l’industria cinematografica degli Stati Uniti ha qualcosa che poche altre industrie posseggono: una organizzazione con regolare orario d’ufficio per combattere il comunismo.
Musica.
Entra Scott. I gruppi di compongono diversamente. Il sindacalista è ora con Scott.
SINDACALISTA: Perché non ti impegni con noi, Scott? Stiamo fondando il “Fronte popolare dei dipendenti di Hollywood”. Quei bastardi del Congresso stanno dando una sterzata. Hanno formato una Commissione contro le attività anti-americane, la Commissione Dies. La repressione comincerà in grande stile, come ai tempi di Sacco e Vanzetti. Metteranno un mucchio di gente sotto inchiesta, qui a Hollywood.
SCOTT: Da tempo ho rinunciato alla politica, Donald. In questi ultimi anni mi sono arrabattato nel tentativo di conciliare la mia doppia fedeltà alla classe di cui facevo parte e alla grande rivoluzione in cui credo.
Musica.
SINDACALISTA: Anche Chaplin è con noi. Ha parlato all’American Committee cominciando il suo discorso con: “Compagni!” Tutti hanno riso. Lui ha ripreso con “Compagni” ed è andato avanti così. S’è fatto subito il gelo.
Musica.
Entra Sheilah Graham. Somiglia a Zelda, in versione più giovane e moderna. Sheilah si unisce alla sceneggiatrice.
SCENEGGIATRICE: Siamo cresciuti fondando i nostri sogni sull’infinita promessa della pubblicità americana. Io credo ancora oggi che si possa realmente imparare a suonare il piano per corrispondenza.
Musica.
SCOTT: Io mi trovo sulle linee laterali. La verità è che ho avuto una ricaduta… Sai, anni fa ho sofferto un po’ di tubercolosi. Ho poca salute, quel tanto che basta per il mio lavoro. Quello che sto facendo qui a Hollywood è l’ultimo sforzo di un uomo che una volta ha fatto qualcosa di meglio.
Musica.
ATTORE: Non so perché, ma da qualche tempo sono sempre le tre del mattino.
Musica.
SCOTT: Sono orribilmente stufo di essere Scott Fitzgerald, visto che, a quanto pare, vale pochino. Non ci tengo a scoprire se la gente mi legge perché sono Francis Scott Fitzgerald o se non mi legge per lo stesso motivo. Qualunque cosa scriva, non la vogliono più. Credo che l’America mi abbia dimenticato. E Hollywood soffoca ogni mio apporto creativo nella sua tomba cinematografica.
SINDACALISTA: Non buttarti già. Ho letto in qualche parte un giudizio di Gertrude Stein sulla tua opera. Diceva, pressappoco: “Fitzgerald sarà letto quando molti dei suoi contemporanei saranno già dimenticati”.
Musica.
SCOTT: Sai cos’ha detto Joan Crawford, quando mi hanno presentato a lei, per la sceneggiatura di „Infidelity!? “Lavori sodo, signor Fritz Herald”.
Musica.
Gli altri sono usciti. Sono rimasti solo Scott e il sindacalista, e Sheilah Graham, che beve, in un angolo, senza togliere gli occhi da Scott.
SINDACALISTA: Come sta Zelda?
SCOTT: Passa da una clinica all’altra. Ora è allo Higland Hospital di Asheville. È in fase mistico-religiosa. Pretende di essere in contatto con Cristo. Classico, no? Mi costa trecento dollari la settimana.
SINDACALISTA: Non c’è nessuna speranza?
SCOTT: Non credo. Quella ragazza aveva tutto. Era la più bella di Montgomery. Nell’Alabama, tutti quelli che contavano la conoscevano. Aveva bellezza, talento, posizione familiare. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa e ha gettato via tutto.
SINDACALISTA: Sembra la situazione di uno dei tuoi racconti.
SCOTT: A volte non so neppure se Zelda non sia un personaggio che ho creato io.
SINDACALISTA: Sei ancora innamorato di lei?
SCOTT: Sì, ma non posso vivere in quella città fantasma che Zelda è diventata. (pausa. Scott si accorge di Sheilah) Chi è quella ragazza?
SINDACALISTA: Una giornalista inglese. Ha una rubrica di pettegolezzi cinematografici.
SCOTT: Mi ricorda stranamente Zelda.
Si avvicina a Sheilah. Il sindacalista esce.
Musica: “Smoke gets in your eyes”, di Jerome Kern.
SCOTT: Lei mi piace molto.
SHEILAH: Lei non mi dispiace.
SCOTT: Come si chiama?
SHEILAH: Sheilah Graham. E lei?
SCOTT: Scott Fitzgerald. (aspetta: il suo nome non dice niente a Sheilah) Scrivo sceneggiature per la Metro. A volte mi chiedono di scrivere dei “treatments”: sa, quelle forme bastarde che non sono né commento né racconto… Una volta avevo talento. Era una sensazione splendida sapere di avelo… Non è ancora scomparso del tutto.
SHEILAH: Non le piace il cinema, vero?
SCOTT: Io sono uno scrittore, e nel cinema lo scrittore è solo un accessorio, Ieri Selznick mi ha dato l’incarico di rivedere la sceneggiatura di un ignobile polpettone – “Via col vento” – già tirata a lucido da decine di colleghi. Mi ha proibito nel modo più assoluto di usare frasi che non siano contenute nel romanzo di Mitchell: “Devi sfogliare il libro come se si trattasse della Bibbia”… Sto scrivendo un nuovo romanzo. Sarà ambientato a Hollywood e avrà come protagonista un produttore che somiglierà come un gemello a quel piccolo Napoleone che è il nostro grande Irving Thalberg. La mia storia sarà molto critica verso Hollywood. Mi attirerà un sacco di insulti… Andiamo a bere qualcosa.
Escono.

5. Gli ultimi fuochi
Asheville, 1938. Highland Hospital.
Zelda dipinge. Parla, come se leggesse una lettera da mandare a Scott.

ZELDA: Asheville, Highland Hospital, 2 settembre 1938.
Caro Scott
da qualche tempo la clinica mi si addice, come un ampio mantello biancoazzurro. Ho ripreso a dipingere. Forse lo apprezzerai, dal momento che è la mia unica attività creativa che non interferisca nel tuo lavoro.
I colori mi si presentano come emozioni. L’aspirazione è orchidea pallida, la passione è vermiglia, la solitudine è un tenero rosa.
Ho ideato un balletto su di te. Ci sono uomini in abiti di tulle bianco ostrica e donne in color giacinto, con cappe appuntite come vele di navi greche.
I miei gigli sono morti. Posso dipingere il dolce ricordo del loro candore. Sai, Scott? Anche i mesi sono colori. Settembre è bruno. Odoro le ore resinose e mi disintegro sotto i pini.
Tua Zelda.

Hollywood, 1938. Un teatro di prosa.
La diva è seduta su una sedia a braccioli. La macchina da presa è su un carrello, ferma, inoperosa. Scott è seduto in un angolo. Sembre sofferente: è avvolto in un cappotto ed ha la sciarpa, anche se tutti, intorno a lui, sono in maniche di camicia.
Il regista va dalla diva: una donna di mezza età, alla quale la truccatrice sta togliendo dal viso una maschera emolliente.

REGISTA: Ti prego, cara... riprendiamo ancora una volta…
DIVA: No! Non ho nessuna intenzione di andare avanti!
REGISTA: Ma perché? Eri radiosa… Non potevi recitare meglio e l’illuminazione era perfetta…
DIVA: Voglio Irving, subito!
REGISTA: Lo abbiamo mandato a chiamare. Intanto, facciamo un altro ciak…
DIVA: Ho detto di no!
Entra Irving Thalberg, il produttore. Con una sola occhiata realizza la situazione. Va dal regista.
PRODUTTORE: Cosa c’è? Perché mi avete mandato a chiamare?
REGISTA: Non sono stato io a chiederti di venire, Irving. (accenna alla diva. Il produttore le si accosta, con passo felpato, da domatore di tigri)
PRODUTTORE: Va tutto bene, mia cara?
DIVA: (si alza di scatto) Irving, io me ne vado!
PRODUTTORE: Vediamo la cosa con calma.
DIVA: Ti ho detto che non funzionava. E non funziona. Mi rifiuto di pronunciare un’altra sola battuta di questo copione! (lo prende, lo scaraventa via) Questa roba non è cinema, non ha niente a che vedere col cinema! Sembra il ripieno d’un tacchino! Non credo una sola parola di quello che dico, la gente ci subisserà di fischi!
SCOTT: (ubriaco) La signora ha ragione, Irving. La gente la subisserà di fischi…
DIVA: Senti un po’, merdoso ubriacone… (sta per scagliarsi su Scott ma viene fermata. Poi il produttore la invita a sedersi, le versa il miele delle sue parole nelle orecchie, la calma. Quindi, il produttore prende Scott sotto il braccio, se lo porta con sé a spasso per la scena, mentre il set scompare)
PRODUTTORE: Questa scena è mal scritta, Scott. Le parti non sono ben distribuite. E il monologo in questione va bene per il teatro, ma i criteri del cinema sono diversi.
SCOTT: Ho riscritto la scena lì per lì, stamattina.
PRODUTTORE: Eri ubraico?
SCOTT: Non più di adesso. Ma è la trentesima volta che quella stronza fottuta me la fa riscrivere…
PRODUTTORE: Ho visto il materiale girato. Un monte di belle chiacchiere, ma neanche mezza situazione. Spazzatura, Scott.
SCOTT: OK, riscriverò tutta la scena.
PRODUTTORE: Temo che dovremo rinunciare.
SCOTT: Rinunciare a cosa?
PRODUTTORE: Alla tua collaborazione.
SCOTT: Non vuoi darmi... un’altra possibilità?
PRODUTTORE: Ho affidato il dialogo a Paramore. Ci sta già lavorando.
SCOTT: Ma come diavolo...
PRODUTTORE: Gli ho dato la sceneggiatura l’altro ieri. Domani sarà pronta la revisione.
SCOTT: Statti a sentire, Thalberg...
PRODUTTORE: È una giornata piena per me, Scott. Ho smesso di interessarmi a te circa tre giorni fa. La Metro scioglie il contratto.
SCOTT: Benissimo.
PRODUTTORE: Ti farò pagare fino all’ultimo cent. Dove vai?
SCOTT: A riprendere la mia sciarpa. L’ho lasciata su una sedia.
PRODUTTORE: Lo so. Eccola qua.
Gliela lancia. Esce. Scott si avvolge la sciarpa al collo. Estrae dalla tasca una bottiglietta di whisky. Beve.
Musica: „The man that got away“ di Ira Gershwin e Hald Arlen.
Entra Sheilah.
SHEILAH: Scott! Amore, che ti succede?
SCOTT: Oh niente. La Metro mi licenzia. (silenzio. Scott beve)
SHEILAH: Non dovresti bere così.
SCOTT: Mi dispiace, fatina. In poco tempo avevi fatto il miracolo: avevo smesso. Se non fosse stato per quella specie di diva da luna park, avrei retto ancora per un po’. Eccomi di nuovo a terra. E senza lavoro.
SHEILAH: Verrai a vivere con me. Ho preso un cottage a Encino. Potrai scrivere in santa pace il tuo romanzo. Però, devi promettermi che non berrai più.
SCOTT: Non sai quello che mi chiedi, Sheilah. Non mi piace non essere ubriaco. Quando ho bevuto, la sensazione dell’enorme panorama della vita si fa fluida. L’alcool sbiadisce i contorni troppo netti che non sopporto più.
SHEILAH: Non capisci che ti stai ammazzando, così?
SCOTT: Lo so. Desidero morire. Ma non prima di aver finito il mio libro…
SHEILAH: Da me starai meglio. Potrai scrivere. Hollywood è vicina, ma l’aria è pura lì intorno. E l’erba è così verde che sembra dipinta per un film a colori. Vieni, Scott. Tu hai solo bisogno di luce, di aria e di calore.
Escono.

Asheville, 1940. Highland Hospital.
Zelda e il dottore analista.

ZELDA: Ho fatto un sogno strano.
DOTTORE: Me lo racconti.
ZELDA: Mi trovavo nella stanza all’ultimo piano di un grande, luminoso manicomio situato al centro d’una grande pianura. Il posto era molto piacevole, ma sul tetto c’era Scott che mi dava la caccia. Io scendevo nel salone centrale, dove vedevo i pazienti della clinica che facevano un’orgia. Volevo parteciparvi, ma non potevo. Sentivo la voce di Scott che mi diceva: “Zelda, ti prego… ti prego, non stare in manicomio…”. (tende l’orecchio) Ma forse non era un sogno. La sento ancora adesso, la sua voce… “L’ho uccisa”, dice. Lei non la sente, dottore?
DOTTORE: Io non sento niente.
ZELDA: Eppure è così distinta… “Ho perso la donna che ho messo nei miei libri!”… Ha sentito, adesso?
Il dottore scuote la testa.

Epilogo
Hollywood, 1940.
La saletta cinematografica di uno studio. Sullo schermo è proiettato in visione privata “Il grande dittatore” di Chaplin. Gli spettatori sono seduti con le spalle alla platea.
Primissimo piano di Chaplin, nella seguenza finale.

VOCE DI CHAPLIN: … “vi invito a non consegnarvi a quei bruti che vi disprezzano, vi asserviscono, irriggimentano la vostra vita, vi dicono cosa fare, cosa pensare e cosa sentire… uomini macchine con menti di macchina e cuore di macchina”.
Fine del film, mentre continua la musica del “Grande Dittatore”. I presenti, sempre seduti spalle al pubblico, battono le mani.
Dall’ultima poltrona si alza Scott. Si appoggia a Sheilah.
SCOTT: Sheilah. Portami al bar.
SHEILAH: Cos’hai, Scott? Stai male?
(Scott si piega in avanti, aggrappandosi al bracciolo della poltrona).
SCOTT: È il secondo attacco in poco tempo… esattamente come quel pomeriggio al drugstore. Accompagnami al bar, ti prego.
(Sheilah lo sostiene. Scott si siede su uno sgabello).
SHEILAH: Ti ordino un whisky?
SCOTT: No. Prendimi una tavoletta di cioccolato.
Reclina il capo sul bancone, morto.
Musica: torna il motivo dell’Alexander’s ragtime band.

Asheville, Higland Hospital. 1948.
Gli spettatori presenti alla proiezione privata sono in realtà tornati ad essere il personale dell’ospedale psichiatrico, dottori e infermiere. Zelda, che era seduta in una poltrona di prima fila, si volta e viene verso la platea.
Musica: continua l’Alexander’s ragtime band.

ZELDA: Se n’è andato per tutta l’estate e l’inverno da circa cento anni. Non tornerà più a casa con le tasche piene di promesse e il cuore gonfio di nuove speranze. Scott, gli alberghi rumorosi si fanno desolati. Il passo è lento e strascicato. I vini sono deboli: i corni e i violini sono flebili, stasera. Oh Scott. Ho voglia di fare un falò di tutto il presente e di offrirlo al passato.
Sullo schermo appare la parola FINE.
Il rullo di coda può continuare a scorrere con la scritta seguente
“Il 10 marzo 1948, nella cucina dietetica dello Higland Hospital di Asheville, divampò un incendio. Le fiamme salirono su per l’angusto condotto di un montavivande fino al tetto, e si propagarono a tutti i piani. Scale e corridoi si riempirono di fumo. Si vide un paio di calze appese a un filo sotto un portico all’ultimo piano danzare follemente nel vento suscitato dal calore dell’incendio. Perirono molte donne, sei delle quali intrappolate all’ultimo piano. Con loro morì Zelda. Il suo cadavere fu identificato grazie a una pantofola carbonizzata. Erano passati otto anni dalla morte di Scott”.

SIPARIO


FINE

 
 
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