-->home --> pubblicazioni --> "A morte Roma"

A morte Roma 1976

visualizza il testo in formato word

 

Due tempi di
RENATO MAINARDI
E MARIO MORETTI

PERSONAGGI

Il clero
Cardinali
Pompeo Colonna
Liberti
Schomberg

Le donne
Fenadora
Contesca
Vasca
Regente
Bona
Orlandina
Selvaggia
Pantasilea

Il popolo
Riccitello
Tiberio

Un nobile
Ugo de Moncada

L’apparizione
L’Angelo: Colucci; Uomo; Medico; Gabelliere; e Don Sebastiano

La musica
Ouverture: Tema del Palazzo
Concerto di trombe, liuti ed arpicordi
Tema di Adriano VI
Tema dell’Orto del Fico
Tema del Pozzo Bianco
Tema Fenadora
Tema dei Funerali del Papa
Tema del Potere
Tema nuziale
Tema della sifilide
Tema della guerra santa contro il santo padre
Tema dei Lanzi
Candoni e Madrigali

La scena
La scena è composta da tre grandi pedane mobili, che possono ruotare su se stesse ed alle cui estremità, verso il fondo, sono applicati tre pannelli praticabili.
I pedanoni saranno, di volta in volta: il Palazzo, il Pozzo Bianco, l’Orto del Fico, Piazza do Tor Sanguigna, i Giardini Vaticani e Piazza Navona.
Due siparietti istoriati: uno per San Pietro e l’altro per Palazzo Colonna.
Pochi mobili, lo stretto necessario.
La scena è circondata da un panorama rosso-arancio, il colore delle case di Roma.

PRIMO TEMPO

Prologo – Sacco a Palazzo
Roma 1521. Palazzo San Pietro. Stanza di Leone X.
Ouverture: Tema del Palazzo. Musica lugubre e solenne.
Nella stanza di Leone X dominano gli ori e i bianchi dei broccati, il giallo intenso dei grandi candelabri, i bianchi avorio degli arazzi. Pochi mobili. Al centro, il baldacchino in cui giace il Papa.
Entrano in scena tutti gli attori vestiti da cardinali, sia uomini che donne.
Il fasto della stanza papale è qua e là contraddetto da smagliature alle stoffe preziose, sedie zoppicanti, una leggera patina di polvere.
Leone X geme ed è scosso da brividi.

LEONE: Che nuove che nuove? Tutto! Voglio sapere tutto in una volta. Il bello e il brutto, o vivo o moro!
GIBERTI: E’ vita trionfante Padre Santissimo! Milano è caduta, Piacenza è caduta, Parma è caduta! Gli spagnoli trionfano e li francesi non hanno più gambe per fuggire!
LEONE: Però scappano l’istesso non è vero?
GIBERTI: Come ratti!
(Il Papa scoppia a ridere, fino a convulso).
POMPEO C.: Calmatevi, Santità! Moderatevi, vi farà male….
SCHOMBERG: Voi dovete guarire, avete l’obbligo di guarire… Pensate alla vostra tiara. Cappuccio della terra, cielo del mondo!
LEONE: La tiara eh? Ciabatterei! Mi ci netto il cioncio. Le nuove che ho suto mi danno più piacere che non la mia tiara! Dunque i francesi vongono il deretano e Francesco cade di collo alla schifezza, non che agli schifi! (esaltandosi sempre più) Lasciami ridere dei francesi, come mi rido di quel cane sfottuto di Lutero! Tié, Francesco, tié. Lo vedi che sono sempre io il più forte! Tié. (nuove risate)
ANGELO: Ecco pronto lo bruodo, ecco il miracolo cordiale che ricongiugne a Domineddio anco li fii sui più distratti! (versa il contenuto di un’ampolla in una ciotola colma di brodo. Grave e grottesco come un medico molieresco, va verso il letto del Papa. Leone X continua a ridere. L’Angelo gli porge la ciotola. Il Papa beve poi ristoppia a ridere. Ora tutti sono come sospesi. Immobili fissano il papa, scosso dal suo riso irrefrenabile) Ssst! (il Papa cessa di ridere. Breve rantolo. Reclina il capo, morto)
POMPEO: E’ ito.
SCHOMBERG: Eccoti morto, finito!
POMPEO: Venisti al trono strisciando come volpe, governasti da leone e ora muori da cane!
GIBERTI: La notizia s’è spanta in un baleno. Tutta Roma già sa de la dipartita der Papa! A le porte del Palazzo c’è pieno di creditori che dimandano d’essere saldati!
GIULIO: (entrando) Che si diano pace. Il Papa zio non ha lasciato neanche di che coprirlo dopo morto, neanche un soldo per un sudario!
SCHOMBERG: Altro che saldare i creditori… Non si sa come mettere insieme qualcosa per le onoranze funebri. Bisognerà rifondere la cera dei candelotti usati pei funerali del cardinal Riario, per ottenere nuove candele, per lo “più possente imperatore”!
(Giberti ride. Giulio De’ Medici sorride, enigmatico. Giberti lo abbraccia).
GIBERTI: Ce la farai Giulio? Avremo un nuovo Medici Pontefice? Ce la farai Giù?
SCHOMBERG: Portiamolo via, ché se lo vedono i creditori, se lo spolpano paranco da defunto!
POMPEO: Bene: portatelo via e sotto a chi tocca!
GIBERTI: E a chi la toccherà la tiara, adesso, Pompeo?
POMPEO: Li romani so sani e non vonno più Medici intorno, ché troppo cari costano li Medici!
GIBERTI: Penso dunque che tocchi a te?
POMPEO: Tu che dichi?
GIBERTI: Vinca chi può, Pompeo.
POMPEO: Coll’aiuto de Domineddio, amen!

I – Cioncola d’una Roma
Roma 1521, albergo del Pozzo Bianco, Vascae Regente, due donne modestamente vestite ma con decoro. A sinistra una casetta con un pozzo bianco, sulla destra la casa dell’albergo del Fico. Sullo sfondo l’Angelo.

REGENTE: (accento pavano. A Vasca) Gnelo dissi a la madonna Vasca, che la ca’ la è propriamente propria: ve gàrbela la ca’ sirocchia!
VASCA: (timidamente. Con accento ciociaro) Madesì.
ANGELO: Cioncola d’una Roma, cruscata de calabresi coglionati, scozzonata di mani e non pur d’uomini! Fetidamente fetida palude di papi e di papesse, di latroni, roffianacce e cantoniere sfeduciate! Donna e madonna del sacrilegio e dell’impostura! Donzellona chiappeggiata da malanni assortiti e sbriccosi! Attilata e inneronita hai da fenire!
REGENTE: Càncaro che epitaffio!
VASCA: Che matto spacciato!
REGENTE: Alto: tasi pissota! Sii compita se vuoi la ca’!
VASCA: Sicuro che la voglio! Qua faremo i tabernacoli più visitati di Roma! Fusse che si volesse riuscire a un combino col nobile signore.
ANGELO: Il faremo il combino. Il faremo madonne. Ho in odio Roma e niente più dimando che firmene in qualche sacro loco onde meno si pecchi o meno si prieghi. In Roma c’è lo inferno e io ho ravisolato di mettere all’incanto ogni mio possedimento per redurme in cittade ove non regni papa, ma odasi e sentasi la disciplina e l’verbo de Domineddio.
(Nel lato destro, dominato dall’albero del fico, entra un corteo di cinque donne velate e vestite di bianco. Sembra una processione di angeli; salgono la scala esterna, cantando e suonando vari strumenti. Scompaiono dietro un portichetto veranda).
VASCA: (al Colocci) Messere, che vuol dire ciò che suto visto e udito? Chi son velle?
ANGELO: (contrito) Madonne, non fu pudore il mio, ma soppiataggine. Fu vergogna e paura. Dimando perdonanza… (sospira) Agnoli romaneschi sono: ecco la verità! Son cortigiane! E vel voléa tacere, perché sète donne da bene.
VASCA: Tant’è messere. Roma n’è piena cje me scoppiarrà! Che cento ne more e mille sbucan fuora!
REGENTE: Allora messere la ca’?
ANGELO: E’ vostra madonne, e per ducati duecento, ché la vista del bordello angiolovino mi fa bassar lo prezzo immantinente! (Vasca gli consegna i duecento ducati senza fiatare. Prende il congedo) Addio bèle madonne! La ca’ del Pozzo Bianco vi appartiene! (esce)
REGENTE: Inàsiate co un puoco de zibetto, che andremo a ca’ de le matrone in visita d’onoranza, sèndò nu niove e quelle patrone antiche de sta zona.
VASCA: Madesì che convéne! (Vasca e Regente passano nella zona dell’Orto del Fico) Le strimpellano il liuto e il manicordo. Puttaneggiano artisticamente, velle! O col far letteratura o con musica e balli, o col traforellare avemarie sull’ambracane!
REGENTE: Tira el campanin!
(Vasca tira la catenella a lato della porta. Compare una bella ragazza, bruna ed aggressiva. E’ Selvaggia Ispanica).
SELVAGGIA: Que quieren, pobres mujeres?
VASCA: E’ costumanza – in Roma almanco – ridursi a visita giugnendo in una casa nova.
REGENTE: Nu semo de la ca’ del Pozzo Bianco e dimandemo udienza a la patrona vostra, sorore, par festezarla.
(Selvaggia le esamina da capo a piedi, poi fa loro cenno di aspettare e scompare. Regente e Vasca si guardano, sconcertate e rese mute dalla fredda accoglienza. Ricompare Selvaggia).
SELVAGGIA: Mi senora no tiene programma de visitas. Hasta la vista! Lo siento mucho.
(Richiude la porta e scompare. Silenzio).
VASCA: Dovevasi fare l’annunciata eh Regente?
REGENTE: A no ‘l sé. Andiamo a ca’ a far ragionamenti.
VASCA: Le treccolone superbiose! La spagnolaccia la si fa forte perché tene abundante compagnia de fratelline, la prosontuosa!
REGENTE: E no’ nu, quante femene de mal partito, done de grama sorte, ma valente, quante marrane o camisare, troveremo a ne femo una mandria e le portòm a casa a tegnèr pratica.
VASCA: E ne facciamo femmine di lusso, puttane di buon gusto! Brava Regente.

II – La tassazione sul puttanesimo
Roma 1521, piazza di Tor Sanguigna. Notte. Viene avanti il pedanone del fondo, con la veduta di Tor Sanguigna.
Al centro, un palazzotto elegante.
Muscia festosa: tema di Tor Sanguigna.
Via vai di gente: vediamo due giovani donne, l’Angelo, un balordo gabelliere.
Entrano Vasca, Regente e Tiberio. Si fermano da un lato a guardre.
Una giovanissima donna sotto una lucerna canta “la canzone de Tor Sanguigna”).

RAGAZZA: (canta) Aria de Tor Sanguigna
Pe’ le puttane
È tutta ‘na micragna! Chi pòle se la svigna
In antro loco
Pecché qua nun se magna
Da quanno quella cagna
De Contesca
S’è messa a da’ la fregna!
Aria de Tor Sanguigna
Pe’ le puttane
È tutta ‘na micragna!
(Passa il cardinal Pompeo Colonna. Gli va incontro una puttana sgusciata dall’ombra).
BONA: Oh, don Pompeo me la vulite ddèà a benedizzione co’ la manona vuota che sempe suogno de sentimmo addosso?
POMPEO: E tu chi ssei?
BONA: Bona è lu nome mio e Bona sono d’animo e di modi, che a ragionar con me ti ci sollazzi: provar per credere, dolce eccellenza. Vieni a trovarmi?
POMPEO: Dove ti trovo in caso?
BONA: Manda a cercar di Bona in questa piazza e troppo longo tempo non ti farò aspettare. Non mi deludere adesso che illusissima sono di te rivedere.
POMPEO: Statte secura: te farò cercare. (esce)
BONA: Pure ‘u cardinale Pompeo Colonna c’è ‘ncappato a lo mastino di Contesca, grandissima turca puttana.
(Regente si avvicina a Bona, le tocca i seni).
REGENTE: Che montagna de herba, sorore, che bei monti per pascolare! Ch’ el’ cavo el magna finché la crep.
BONA: Anco so’ soddomita all’occorrenza, e ‘o sacc’io comm’accide ‘sta linguella!
REGENTE: Pota! Ma l’homo lo sbragagnù ben, lo feu contento in del far l’amore?
BONA: Iiih! E’ cchiù facile assale! Basta scarfarlo con due basci, fargli palpare ‘ste coscetelle calde e smozzicarlo un poco e già straluna! La femmina pretenne cchiù ferociarìe!
VASCA: Quello che cerchiamo noi Regente! La nostra casa deve dispònere de tutte specialità!
(Bona ancheggia furiosamente, facendo balzellare il seno).
BONA: (ride) Culo e tette madonne spagnuolescanmente! Chi mi vien sopra male ne discenne!
(Tiberio si avvicina a Regente, trascinandosi dietro una ragazza; fa una specie di smorfia a Regente).
REGENTE: Doh villano, no trarme la mona! Cerchi nù, eh, omo de ben?
TIBERIO: Navico secondo i tempi, madonna. E sono brutti, co’ tutti ‘sti eretici e scismatici. Accortomi che puttane graziosamente ardite in camere cercate, ecco che vengo a offrirvi mercanzia solida e dilicata. Questa è Orlandina Savoiarda la mula mia, che ben più d’una soma può portare! (ride grossolanamente ma è un ghigno doloroso. Fa avanzare Orlandina, le apre la camicetta, fa vedere due seni superbi. Ride. Orlandina ride, scioccamente) Il resto poi gnelo mostri a casa, neh Orlandina?
ORLANDINA: (accento misto torinese-francese) Mi son brava madamine v’sin a l’hom! Che l’anima ‘m tramora se non dis la verité! Mi son Orlandina Savoiarda, la famm de l’isì present Tiberio Toppi! Cièl è un ribald ma “amour fait moult”! E mi per sfamar ‘sto mi folèt voi star par tout el dì a cul busnèt!
(Regente e Vasca si guardano).
VASCA: A te allora me te so’ pigliata!
BONA: Ma pure io so’ assunta, nun è ‘o vero?
VASC0A: Va bé: fa cuntu che già stai co’ noi!
TIBERIO: Mògliema e figlimi piantai per questa pascipecora, e c’io la sfamo da una bocca tocca a lei coll’altra, trarmi dalla fame.
(Si alza il gabelliere, va verso Bona e Orlandina. La faccenda è caduta sotto la sua giurisdizione. Bona e Orlandina vorrebbero darsela; interviene Regente, che le afferra per un braccio e le trattiene).
REGENTE: A ghe son mì! I dinari de la tassatione su le puttane, eh pota? (ride) Beh, i dinari li darm nù! Quanto vuoi per ‘ste do cagacassi?
GABELLIERE: La mesata! La giusta tassata de le cantonerie!
VASCA: Parvi che femmine possiamo noi esser da cognoscere simil tariffe, signor gabelliere? (a Regente) Soddisfa, Regente, le pretese del papato che poi tra noi signore tratteremo. Così sarà nevvero, care le mie cottoielle? (pollastrelle).
ORLANDINA: Sì madamina.
BONA: Essissignora. Fra nuje appresso ci aggiustiamo.
GABELLIERE: (sonnolento, burocratico) La tassatione sul puttanesimo, madonne, stabilisce che per ogni cantoniera o puttana da lume, o da gelosia, o puramente da fossi e da pontili, venga cacciato dal guadambio…
REGENTE: Quanto? Quanto, càncaro, quanto? No slongagné soldo! (Regente apre la sua borsa e lascia che il Gabelliere prenda i soldi che gli spettano per la tassa) Andòm a ca’, matazuole, ca avemo fato el numero giusto: Bona napoletana, Orlandina Savoiarda, mi e la Vasca de Ciociarìa, semo quattro ma bèle e salde! Andom a ca’, andom!
(Escono. Ritorna il tema musicale di Tor Sanguigna).

III – Conclave uno e due
Roma 1522, sala s’aspetto della casa di Contesca - Orto del Fico. Sono presenti – oltre a Contesca e Selvaggia – il cardinale Schomberg, il Giberti, Pompeo Colonna e Ugo Moncada.

MONCADA: (vedendo entrare Schomberg) Y allora?...
CONTESCA: Bene arrivato nella nostra casa, monsignore. Quali nòve? Presto che siam tutti ammartellati per il conchiave, tutti qui sospirando in aspettativa.
MONCADA: Y allora cuando finirà la cuenta delle votazioni para el conclave?
GIBERTI Manco Domineddio lo sape, senor ambasciator Moncada: la va alle longhe!
SCHOMBERG: De una forte pontifize afemo pisogno, amato lui da grande imperatore Carlos unito, combatte e par sempre mortifica Franzisco e tutti suoi franzosi; uno che stacca testa da collo a Lutero e luterani, eretizi tutti quanti chi fortemente tisturba Santa Madre Chiesa…
GIBERTI: Coardinale Schomberg, ti priego, non svanverare in facili fanaticherie. Studia, spia, antivedi, considera, pon mente, assottigliati e crivella il tuo cervello che spagnuolescanmente ti ragiona: Carlo Quinto ha in mira di tutto avere per sue mani, e su tutto e su tutti imperare e da tutti volere e pretendere e di Santa Madre Chiesa unicamente importa che metterla sotto a’ suoi stivali. Unico al mondo forte e buono di ostacolarlo è proprio un papa caro a Francesco.
MONCADA: Yo digo que no, que no! Al mio senor Imperador Carlos Quinto un Papa serve, que sea presente, a los principaes actos de la guerra y de la paz! Serve uno amigo!
(Casa del Pozzo Bianco).
VASCA: Verzette mee è arrivato gliu mumentu che la casa ha da trovare nòvi clienti: nòvi clienti e validi e spendaccini. Non più dunque puttane scellerate, intonacate alla lombardinaccia, col vestire burino e l’modo da scandarde (zoccolacce) quali sete. Hanno da esse raffinate etére alla casa del Pozzo Bianco in Roma. Quando da gliu paese so calata a bballe e so arrivata in Roma, Fenadora Reverendissima, superba amante agliu cardinal Campeggi, che puzzi crepane! Nel punto del suo massimo splendore, mi scelse come allieva e mi fu grandiosa abicista. Issa me presentò cavalieri importanti e dispendiosi ed è suto co gliu fruttu e vegli risparambi, che m’è montato n’capo de mettene su casa. Fenadora Reverendissima merita ricognoscenzia e l’averrà. Io la propongo mone a tutte vù come capessa sapiente e maestra d’ogni fimezza.
REGENTE: Oh laldò sea la Mare del Paraiso, ma perché nò ti, Vasca? Parché fare capessa la Fenadora al posto tuo? Mi no capisso, cancaro, no capisso!...
BONA: Tu sì valente e praticona, e allora? Perché Fenadora?
VASCA: Perché l’anima mea vale de più e meglio assai de méne e de Regente e de tutte vù. Nell’interesse comune diamo il comando in mano a Fenadora.
BONA: Fenadora! Ma chilla magnaparadisi non ha avuto sufficiente abilità per conservarsi un ganzo cardinale e doppiamente s’è disonorata: in primo col far da manza a un de la Chiesa, e in secondo punto, per essersi fatta da lui discacciare e rinserrare. Che onore ha dunque chiù la Fenadora? Prima e’ concludere o’ conclave nuosto, me tocca dicere poche parole ancora in disdoro della Reverendissima della pannocchia. La stimatissima vucchella e’ Vasca già l’acclama capessa. Embè io dico cà Fenadora è rinserrata alle “Pentute”, soggecata in priggionìa e dico ancora cà Fenadora è fetentissima traditora, servante del puttanesimo papalino e discacciata e sfravecata da chilla sguarona smafarata e Matrema-non-vole che gli sì arrubbata lo ganzo suo cardinal Campeggi, che la e’ tolse ‘e miezzo col farla accusare di arrubbamento. Troppo discreditata. Fenadona nun tiene ‘o diritto a ffà la direttora ‘e chist’albergo!
(Orlandina applaude. Vasca e Regente la guardano male).
ORLANDINA: Mi dis, madamine, che basta la viella Regente a far la dirigeuse de la méson. N’importa pas che una autre capitaine arrive ici par offendér ma beautè e par humilier la peregrine viellessa de Regente, la pauvre decrepite Mathusalem! Regardez-la, elle fait vomitér !
REGENTE: Mi a dago el vomito, mi vecia, pota de chi te fè! Puttana del cancaro! Ch’à te cazerò a pedòc del col, mi!
(Fa per picchiarla).
ORLANDINA: Au secours! La vieilla salopea! La vieilla entrometteuse ! La vieilla merde! Merde! Merde! Merde!
REGENTE: Trèmela via de le man, sta cagacassi, pria che mi la desfa !
ORLANDINA: Ah, que tu es villana, que tu es bouvière!
REGENTE: Fatte capire almanco, sporca!
ORLANDINA: Intend che à regarder vien il vomito alla bauche!
REGENTE: Loamara, porsela, buelona marsa!
(Pozzo Bianco).
ORLANDINA: N’ue poss plus de toi, tu m’hai compris?
REGENTE: Ah sì, mò? Cussita, brutta striga, vaca! Potta del mal mortal ca g’ho le bale piene, mi!...
VASCA: Agòò! Rimpinconate burine! Chedd’è cuscine che s’ha da fane, ahò? Grami penzieri mé! Famo tutte inzemmora, da amicone, questo ch’è meu è pure teo, vello ch’è teo è pure meo… tutto alla comune, tutto che gliu padrone n’ha da esistine… padrone tutte e tutte cò gliu sacru diritto a dì la sea! Sii! Boja dina, co la fregna! E allora, lo sapete che vi dico? Che quanno l’inferiore è inferiore pure de cervello, comanda chi ha pagato e qua, dato siccome ho ditto, commanno io. Avanti, venite tutte loco e tutte mò me votate pè quella santa martire de santa Petornella: forza, babbuine, votate per la grande Fenadora.
(Le altri si avvicinano e, a una a una, dicono il nome di Fenadora).
VASCA: Ecco che civilmente tutto è suto risoluto. Fenadora, poeraccia, riescerà da le “pentute” in seguito alla amenestia de gliu papa nòvo e sarrà nostra caporiona. Voletele bene e fate grazia de la cunziglia sée! Fenadora riescerà a fane di vesta casa gliu casinu più grandiusu in Roma e tutte cose alle mani see arridìnu megliu, stete persuase! Vesto che state a sentine è ‘na specie ‘e discorso della corona de vella sfortunata ‘e Fenadora Reverendissima!
(Ora applaudono tutte).
REGENTE: Oh, a le vagnèle a me ho levao un gran cargo da le spale anca parché, la Fenadora a mi la me piase! Fenadora è capessa e capessa restarà! Habemus Dominam.
(Sala d’aspetto).
CONTESCA: … io tengo che sia gran riputazione l’amicizia loro: loro sono i Colonna, le colonne che reggono Roma! Ser Pompeo argutamente ha commerciato, patteggiato co’ cardinali e co’ pulitici e securissimamente Monsignor Pompeo sarà lo nòvo Papa!
COLONNA: ma che stata a dì! Già ce stà er Papa novo!
CONTESCA: Sete voi? Questo è lo frutto de’ nostre preci.
GIBERTI: No, no, non me dicere che c’avemo n’antro Medici! Nun me lo dì, che sinnò me moro!
COLONNA: Nun moriteme, che in questo senso è ita bbene! (sollevato)
GIBERTI: E allora?! A chi è toccata Roma: me lo vòi dì?
SCHOMBERG: Qui est?
MONCADA: El nombre de l’Imperator del mundo!
COLONNA: Roma è stata affittata a ‘n barbaro! A furia de farce dispetti ce semo guadambiato ‘n papa commodo a Carlo Quinto, quanto sarrà de rompimento a li romani! E mò? Chi glielo annunzia ar popolino ch’er Papa de Roma è nato a Uthercht ne’ le Fiandre, e ha fatto da precettore a Carlo Quinto e parla barbaresco e se chiama Andriano Florenz Borgens? Come se fa a nnunziargnelo?
GIBERTI: Dico io che Adriano Borgens è troppo de humile anima, per accettare de fare er Papa! Non lo torrà mai ‘n’incarico sì alto, bisognerà rifà er conclave! Bigna rifà er conclave!
COLONNA: Ma che dichi don Giberti? Che dichi? Ma ‘ndo stanno ste criature humili, tanto stronze da non volé esse fatte papa? Quello ce sta: ce starrà! Sai che ti dico? Mejo ‘n Papa ignoto che nemico!
(Entra il cardinale Giulio De’ Medici. È pallido. Disfatto, dà l’annuncio ufficiale).
ANGELO: Habemus Papam Eminentissimum ac Reverendissimum. Dominum Sanctae Romanoe Ecclesiae Cardinalem Adrianum Florentum Borgensum qui sibi nome imposuit Adrianum Sextum!
SELVAGGIA: Que escandalos! Por lo menos podrian serrar las ventanas!
CONTESCA: Recati a quelle luponacce, Selvaggia, e dignele che se amano rufolar in sul letame, almanco sporcariassero in secreto! Che ricuopran seffe e fessure chè noi madonne non vogliam vederle!
POMPEO: Ma io sì che le voglio guardare Beh, le son gagliardinelle… Viè voglia d’accostarse e de tocca co’ mano…
CONTESCA: Questo non lo farete a Contesca: da voi simili sfregi non saprei perdonare. Giurate di astenervi!
POMPEO: Ma sì, vi do parola. Me ne asterrò per amor vostro, anche se di cognoscerle vien gola…
CONTESCA: Vanne, Selvaggia!

IV – Battaglia di Dame
Pozzo Bianco. Escono Vasca e Tiberio: si siedono davanti al pozzo.

VASCA: (indica a Tiberio la casa delel rivali) Guardale là le bergoliere, tutte in punta di zoccolo a graspugliar quadrini, ‘ste fiuta-schifezze, più co’ le ciance che co ‘l cioncio! Le cognosci, tune?
TIBERIO: E chi non le conosce covelle ciarpette cinèche? Le “Coriste del Fico” son famose in Roma! Chi piscia come le altre è come le altre, si dice. Pure non è così! Le son diverse, le furbe ipocritone! La capitana è la bionda Contesca da Fabriano, la è protetta addirittura dal Cardinal Colonna.
VASCA: A la fregna sèa!
TIBERIO: Quella che sòna er piffero, solitamente sòna quello più paccuto assai di Ugo Moncada, Ambasciator d’Ispagna.
VASCA: Pòzzino sì fregate!...
TIBERIO: Le fegheno, statte tranquille che le fregheno!
(Orto del Fico. Si affaccia alla veranda Selvaggia. Canta un madrigale: “Pallidetto ucel mio”).
SELVAGGIA: Pallidetto ucel mio
il tuo pallore
ha mutato il vermiglio del colore.
Pallidetta mia rosa
per via del tuo pallore
ha perduto la porpora amorosa.
Oh piaccia alla mia sorte
che dolce teco impallidisca anch’io
pallidetto amor mio!
(Pozzo Bianco)
VASCA: Addove l’aranno pescati tutti ‘sti signori?
TIBERIO: Li devono tutti a me!
VASCA: (sdegnata) Tune? Sagrestano chiappolone! Me lo dicea: “chi mastica avemmarie sputa paternostri!” E come hai fatto a mette inzemmora tanta bella gente?
TIBERIO: Facenno er zagrestano, appunto! Hai da farte perzuasa che la mia Chiesa è la più nobile Accademia de la puttaneria romana e mondiale! Si a ‘na cioncola o a un bordello tutto io vendo i primi posti dei banchi davanti all’altare ‘sta puttana o ‘sto casino, già stanno in su la bocca d’ogni puttaniere! Ner giro d’una messa se so’ fatti ‘no squadrone d’imbertonati pronti a farsi votare la scarsella!
VASCA: Pozzi murì indennaiato di lendini e pidocchi, basciabanchi incacato! Che fai l’amico nostro si poi te metti a fa’ er roffiano de’ velle?
TIBERIO: Li volete bascià voi li banchi mei madonna Vasca?
(Sorride ambiguamente, facendo con le dita della mano destra un gesto molto significativo).
VASCA: Eh lo sane, ti capisco bene! Vòi da esse pagato, none?
(Dalla casa, esce, cacciata in malo modo, una orrenda e grottesca donna, col volto in parte velato. La donna recalcitra, vorrebbe rientrare, ma Regente la risospinge fuori).
REGENTE: (urlando) A ho paura, sangue del cancaro! A no vuogio, no vuogio, no vuogio per gnente! Ca te cognosco, pota de chi t’ha fato!
TIBERIO: (ridendo) Ma lassala restà, ca godfa pure lei la pora donna!
REGENTE: (a Tiberio) Tasi porsèo! (alla donna) Tuote a to’ gonela e mostra l’altra prèt impestao! Ca no l’è ‘na femena ‘sto cancaro pien de sifilide! A l’è on prèt pien de peste e de colera, ca l’ha zà riunà tante mone!
(Vasca e Tiberio scoppiano a ridere). Tolgono la gonna e il velo alla donna che si rivela un prete, don Sabotino. Anche Bona è venuta fuori. Risate).
REGENTE: Va con Dio, va via de la mia ca’, peddòc sfrancioso!
DON SABOTINO: Lasciami un tantino solo vedere, Regente! Che son sanato giuro! Ho fatto cure e scongiurazioni e francioso non lo sono più. Fecimi la malìa dell’uovo, e fino a la staccia de cenere, la farina ne la quale si ficcano le forbici con lo scongiuro del San Pietro e del San Pavolo, così che le donne che mi sterebbero di sotto non prenderìan più contaminazione, ché il mio male francioso è disparuto!
VASCA: Tu te ne hai da ì, hai capito prete de merda? Che me vài arruvinà le ragazze, leutico fracico? Tu te ne hai da ì! Dateme ‘na manu, forza!
(Nessuno si muove: don Sabotino guarda Bona, con patetica cupidigia. Implora).
DON SABOTINO: Una tastatina e non più: io m’accuntento!
TIBERIO: Secundo la lege canonica il prete paga cuntante e può affinarsi lo strumento!
BONA: Sì, l’affina din’a o culo tuo l’istrumento! Magnatela tu ‘sta squisiccia suia. Ca po’ vivi invenerato e crepi ‘mpiso, scianchinato e attossicato dal mal francioso! E dammogli ‘na mazziata, jettamolo a la strada ‘sto pretaccio impestato!
DON SABOTINO: N’occhiatina m’abbastarìa… n’occhiatina…
(Le donne, coalizzate, lo scaraventano fuori. Bona e Vasca sono ferme davanti alla casa del Pozzo Bianco, mentre passano i cardinali Colonna e Giberti, diretti alla casa del Fico).
BONA: Io vurria sonà ‘o campanone a chillo pretacchione!
VASCA: Troppo lusso pe’ tene! Covello è gliu cardinal Pompeo Colonna.
BONA: Già l’aggio cognosciuto, allora! Mò me facciosotto e l’affronto. Tu curati dell’altro che poi ce li portamo a casa nuostra. Chillu Colonna la na vòta o l’autra sarrà fatto papa e io me l’aggio a cavà la suddisfazione d’aver mangiato carne e papa… (si avvicina a Pompeo) Eccellenza mia guappissima! Voi m’avite delusa assai, ch’io ci credevo alle promesse vuoste cardinalizie e ancora aspetto ca me facite chiamà. Io songo Bona!
POMPEO: Bona, certamente!
BONA: Non vi volete accomodar con me nella mia casa? Ce facimme ‘na bbella tarantella orizzontale!
CONTESCA: (che ha seguito la scena dalla porta del suo albergo) Ricordate anche le promesse fatte a Contesca, amico mio caro e ricordatevi che noi la sappiamo fare con più nobile proprietà la bella musica! La non è vera, cardinal Pompeo, che la nostra musica sacra è la più fine?
POMPEO: (a Bona) Son nell’obbligo d’ubbidire: m’accora molto ma… che ce potèmo fa? Sarrà per n’antra vorta! (esce)
BONA: Lo papa del futuro già stava in mano mia! Ah, potessero morire indeneiate e maledette ancora
VASCA: A casa, a casa a far consiglio, a casa, Bona!

V – Adriano VI
Roma 1523. Giardini Vaticani.
Entrano alberi montati su carrelli. Al centro un tronetto retto da una fune appesa al roma d’un albergo. Adriano VI – che ha le fattezze del Papa Leone X – passeggia. È lento e affaticato, distrutto dalle estasi. Entrano i cardinali Schomberg e Giberti. Si inchinano.

SCHOMBERG: (sarcastico) Quante estasi oggi Santo Padre?
ADRIANO VI: Quatuor cartinal Schimberg Lapsi sumus, queste estasi benetetti nos occidunt!
GIBERTI: Vostra Santità non dimentica che ha accordato udienza ai tre sovrani Carlo di Spagna e d’Austria, Francesco di Francia e Enrico d’Inghilterra.
SCHOMBERG: Anca se l’idea di rizevere loro tutti e tre in metesimo stessomomento… non è idea molto felice…
GIBERTI: Comunque presto saranno qui e il Santo Padre avrà certamente una sua linea politica da seguire…
ADRIANO VI: (stancamente) Politica res non est nobis, nobis est regnum coelorum…
GIBERTI: (scandalizzato) Ma la tiara è una triplice corona, Santià, di Roma, del Mondo e del Cielo!
SCHOMBERG: Ultimo viene il Cielo, Santo Padre!
ADRIANO VI: Nos sumus Pontifices. Io sono Papa solo perché Tio Padre ha parlato Mihi.
GIBERTI: E che v’ha detto – Dio – che v’ha detto?
ADRIANO VI: Per tomare Roma maledetta et scantalosa, il teprafato clero e l’eretizio Lutero opus erat uno pontefize olantese; sic dixit. Per questo tiaram accepi. Ho accettato una tiara che la mia humilitade mi obbligafa a rifiutare!
(Pompeo Colonna, nell’albergo del Fico, tiene banco, tra Contesca e Selvaggia, che lo ascoltano piene di rispetto).
POMPEO: Ma guarda sì che papa c’ha da avé Roma! Io sì che sarebbe stato ‘n papa ggiusto, matricolato e fijo de ‘na mignotta vergine e santa! (prende il cappello d’una ragazza, ne fa una specie di tiara e se la mette sul capo, pavoneggiandosi) E ‘nvece quello stedescato… Ve vojo raccontà quello ch’ha fatto stammatina… C’aveva la visita de tre grandi ‘mperatori, Franciso er Primo, Carlo er Qionto e puro Enrico Ottavo ingrese d’Inghiltera… (guarda Contesca, gli viene l’idea di mimare il colloquio del papa con i tre regnanti. Pone sul capo di Contesca la tiara) Fanno che tu sì er papa… questa è la tiara.
CONTESCA: (stando al gioco) Oh la sì bella tiara! Degno più d’una regina che d’un Papa! (Pompeo la fa sedere su un seggiolone, come sul trono) Che devo da dicere, eccellenza?
POMPEO: Statte zitta. Anzi, devi da dì soltanto: “Videbimus”, o mejo: “Vitebimus”, co’ l’accento germanese. Capischi!
CONTESCA: Vitebimus.
POMPEO: Ar bacio. E dunque, mo’ so’ Carlo er Quinto. (entra nella parte di Carlo V) Su Santidad recuerde que fué mi pedagogo y que es papa por merito mio! Yo solo estoy en grado de combatìr Lutero y sus secuaces y tambien Francisco! Que me dices, Santidad?
CONTESCA: Vitebimus, Francisce, vitebimus!
(Pompeo ride, eccitato. Ora entra nel ruolo di Enrico VIII).
POMPEO: For your Majesty the Pope il tempo è venuto di uscire dal mondo of the spirit and di guardare around sé. The political situation è critica anche per la mia Santa Church… Bisogna combatére and combatére with me per arrestare the heresy of Luther and una possibile division of the Church! And now, Sua Santità? What rispondére to me?
CONTESCA: Vitebimus, Enrice, Vitebimus!
(Contesca, Selvaggia e Pompeo ridono. Pompeo fa un gesto, come a riassumere in sé i tre imperatori. Si china a baciare la pantofola del papa. Mormora).
POMPEO: Muchas gracias, Su Santidad… (bacia la caviglia di Contesca, poi più su) Je vous remercie, Vostre Sainteté… (abbraccia Contesca) Thank you, Santità… (se la prende in braccio cominciando a spogliarla, eccitato dal gioco di Contesca-papessa. Escono. Il vestito di Contesca arriva fino a terra. Selvaggia ne prende un lembo, come una paggetta alle nozze della regina. Musica liturgica).

Giardini Vaticani

ADRIANO VI: Verboten
Feste e festeggiamenti – Verboten!!!
Dar asilo a malviventi – Verboten!!!
Trafficar puttani e puttanesse – Verboten!!!
Austerità…
Per domare Roma maledetta!
Austerità…
Per domare Roma scandalosa!
Austerità…
Per il depravato clero!!!
Ora io sono il vostro Papa…
Così mi è stato detto…
Occorreva un pontefice olandese!
Così mi è stato detto…
Per domare la Roma scandalosa!
Per domare la Roma maledetta!
Per domare il depravato clero!
Per domare l’eretico Lutero!!!
Occorreva un pontefice olandese…
Così mi è stato detto…
Verboten!!!
Feste e festeggiamenti – Verboten!!!
Dar asilo ai malviventi – Verboten!!!
Trafficar puttani e puttanesse – Verboten! Verboten! Verboten!!!

VI – Fenadora
Roma 1523. Pozzo Bianco. Immobili come in un quadro fiammingo, le donne del Pozzo Bianco intrecciano canestri di vimini. Manca solo Orlandina.

VASCA: (sospirando) Ecco qua che ce tocca ffà. Delle honeste puttane co’ gliu commerciu già avviatu, so costrette a mettesse a ffà le viminafre effà gli strigli pe’contentà vigliu assassinu d’u Papa che ce ffà sorveglià de la matina a la sera… Fusse che se more, ché more e more e non se more mai…
BONA: (butta il suo cesto e si alza) Stò scucciata, ecco! Io ch’avea ‘na facce janca rossa e bella che còpeta parea de lo Pennino, a forza e’ carestia d’uommene e d’ammore sto cumbinata peggio assai chiù e ‘na ‘mpisa! O vulite sapè che facce mo’ Bona da Candela? Torna in Tor Sanguigna affà la vita a scuorno e’ chillo cornuto ‘e Papa! E chi me vole bbene s’incricca cu mmé e vene a ‘nsapunà 0ntorzati!
(Vasca la trattiene).
VASCA: Stattene a ca, tune. Semo artiggiane per volere del Papa e della Chiesa, ma non tutte! Le coriste dirimpetto immece so’ trafficone d’uommene più ancora e’ prima e fra un matricale e ‘na ballata e ‘na ballatetta, fanno le scustumate e prendono più uccelli alla rete loro! Ma nù ce vendicamo contro u’ Papa! Venite a ca! Facemo a fattura!
(Al richiamo, anche Orlandina si aggiunge a Vasca, Regente e Bona. Quest’ultima ha estratto dalla gonna una statuetta di Adriano VI, e l’ha messa bene in vista. Vasca trafigge la statuetta con uno spillone).
VASCA: Trafiggetelo pure voi, ca io vaco a dire la formula!
(Regente, Bona e Orlandina trafiggono la statuetta di cera con gli spilloni. Vasca dirige la cerimonia, recitando la formula come una preghiera).
VASCA: Angiolo nero di Santa Lena, angiolo bello messer santo Raffaello forte per le vostre ali d’uccello, intendete ciò che io favello: dato che Roma fa penitenza e che l’amore ne fu sbandito che noi madonne semo in stato d’humiliazione forte, porta la morta a lo zozzeone Adriano VI, che portò a Roma, pietosa soggezione e lutto bianco e lutto nero! Deh! Santa Lena fa lo tuo mestiere, fallo morì intorno a cinque dì, de ‘sta fattura!
(Quindi si segnano e rientrano in casa).

Orto del Fico
Escono sulla veranda, Contesca e Selvaggia. Musica d’archi, dolcissima: tema dell’albero di Fico.

CONTESCA: Sirocchia mia, ho sentuto che il Papa Adriano benedetto stà male assai e stà pure pe’ morire. Eppure è strano: ancora non è trapassato e già danno sortire le cortigiane amnistiate. (ride) Forse c’hanno pavura che vegna un nuovo papa barbaresco e si rimagna l’amnistia sì come fece Adriano malannato!
(Selvaggia ride, ma cessa subito. È entrata in scena una gagliarda donna, bionda e spavalda: Fenadora Reverendissima. Fenadora è appena uscita dal carcere. Cambio della musica: tema di Fenadora)
SELVAGGIA: Es Fenadora Reverendissima! Senora, es Fenadora!
CONTESCA: Hi, la grama!
(Fenadora le guarda da sotto in su e fa loro un gesto osceno. Contesca si ritira, offesa e piena di dignità. Selvaggia ricambia il gesto di Fenadora, poi segue la padrona. Fenadora scoppia a ridere. La sua risata è come lo squillo d’una tromba. S’affacciano dalla casa del Pozzo Bianco, una alla volta, le quattro inquiline).

Pozzo Bianco
Fenadora con un salto va sull’orlo del pozzo. Si prepara al discoso. Musica: tema di Fenadora.

FENADORA: Alloùra sorelìne com a fu morta mo’ a son ben viva, e visto che son libera e pur fatta duchessa del Pozzo Bianco, e degh el mi pensir: oh gran giustezia d’una Fenadora quant te t’ha da esser temù da ognuna puttana d’ialbergo del Fico! In Roma non puote vivere insieme du case, che una fa scunfort a l’altra! An pòl brisa esser! L’a da esser guera! S’a vlì ca sia la vostra duchessa, a m’avì da giurar ca cumbatrén la Contesca e el son putein infina a la mort! O nueter o loùr! Due lupanari nemici che andessen d’acord la sré l’infamia de l’infamie! S’la v’va ben, la v’va ben acssì e sino ciavèv! Mè a son semper la Fenadora Reverendissima, alta courtigiana e bolognese e ai pos spudér in vetta al vostr albergo tant me a pos avéir l’istéss tutti i meglio scignoùri con tant d’stemm e ducati! Par concluder, dezidì! O a m’tulì e a far la guera a la Contesca o me a stag da por me!
(Le ragazze del Pozzo applaudono il discorso di Fenadora).
VASCA: Giusto: guerra a Contesca!
ORLANDINA: Viva Fenadora notra duchessina!
REGENTE: Viva la nòva capessa del più glorioso casotto de Roma!
BONA: Muorte a Contesca, viva a Fenadora!

VII – I funerali del papa
Roma 1523. Cella di Adriano VI, al palazzo. Adriano VI, agonizza nel suo letto. Intorno a lui, i cardinali Ponzetta, Soderini, Pompeo Colonna e il neo-cardinale Giberti.
I cardinali tormentano il Papa che non è in grado di reagire né ai loro insulti, né ai loro strattoni.

POMPEO COLONNA: E parla, crucco! Dove lo tèni, allocco?
GIBERTI: Quanto denaro c’è? Lo devi dire, hai capito? Non vedi che stai tirando l’ultimo? Parla tignoso!
POMPEO COLONNA: Sto scariotto! Prima de crepà hai voluto farti un cardinale nòvo doppo er Giberti nostro! Hai fatto bene a fa cardinale er tuo Enkefort almanco ce sarà uno sincero dietro a li funeali tua! (il Papa rantola) Spetta a rantolà, rimbertonato! Che così mori, tu? E li ducati?
GIBERTI: (ormai feroce come gli altri) Dove stà il tesoro? Parla!
(Ponzetta fa per tirarlo giù da letto ma una musica celestiale blocca il suo movimento. Anche gli altri cardinali si fermano. Pausa. Entra un angiolone carocco con tromba e spada. Il Papa gli sorride. L’angiolone lo compone nella posizione funebre, con le mani in croce sul petto. Fa per andarsene, senza degnare d’uno sguardo i cardinami, ma questi – che non l’hanno visto, o meglio, che non potevano vederlo – riprendono a tormentare il Papa. L’angiolone, irato, suona la tromba. I cardinali si immobilizzano. L’angiolone esce. Pausa. Adriano sorride, si mette seduto sul letto, guarda tutti con malizia e riesce a sillabare a fatica).
ADRIANO VI: Io fi tutti frego et moro!
(Ricade giù, nella posizione in cui l’ha messo l’angiolone. Riscoppia la burlana dei cardinali, che ridono da sgnasciarsi).
POMPEO: Imbecille anche in sul punto della sua morte! Ma che fregati, che fregati! Non ce lo sai che li romani aspettano che crepi, non ce lo sai?
GIBERTI: Mka che gli stai a dì: già è morto!
(Chiesa addobbata a lutto. Contesca e Selvaggia sono inginocchaite su un banco di prima fila. Entra Fenadora col suo seguito).
FENADORA: (a bassa voce a Regente) Dì mò su, Regente, sogna po’ sicuri che il Tiberi ci ha tenuto il primo banco, con tòtt i ducati chè l’ha pretais? L’è ‘na question d’honour per de le cortigiane. Non vorrei che con tutta ‘sta zènt ce l’avesser già occupato il nostro banco.
REGENTE: Pota, a ve pensè le gran noele! No l’ho pagà el banco? Cò la mia carne e po’ cò vinti ducati a quel cancaro de Tiberio che l’ha godesto de tute nù par favorirne in cièsa.
FENADORA: Pur vedo che ci sfugge, non vorrei…
REGENTE: El n’è el vero! A vago inanzo mi e, se’l besognasse…
(Orlandina si è appartata con Moncada).
ORLANDINA: Que belle funerailles, né, monsù? J’ai jammais visto un service funebre tellement gaio!
MONCADA: Ahi, senora, al amor no resisto! Mirame, nina, con tus ojos altos, batidos de luz que en el mirarte me voy apagar!
ORLANDINA: Mi son fija d’un paizan de a Savoja e malintend le roman.
MONCADA: Belleza que yo he visto no tiene necessidad de palabras! No, no volve el rostro sin mirarme: tiengo el cabello bianco y por tus anos soy muy viejo, ma tambien…
ORLANDINA: Viejo, senor?! Si viejo voult dire vieu, mi dis che j’adore le vieux! Un veillard c’est mieu d’un homme jeune, plus gentile, resistant né l0amour et plus généreux dop l’amour…
MONCADA: Ahi, my putito, ahi que bonita! Deseo volver a verte pronto…
ORLANDINA: Esta nuit? A onde? In loco privé que’je desire mostrarme come jammais son stata con autre homme: sans veston, nudo nudita, che a corp nu mi a gagno moult…
MONCADA: Esta noche! Esta noche seguramente! Ah, hundir mis manos para alcanzar tus frutos encantados! Ma esta noche quando?
FENADORA: Orlandina! Oralndina!
ORLANDINA: J’arrive!
MONCADA: Orlanda, Orlandita de my alma!...
ORLANDINA: Ou pouvon nous toucher?
MONCADA: Digame donde y quando!
FENADORA: Orlandeina!
REGENTE: Orlandina, tuote rancura, vien chi!
ORLANDINA: Mon Dieu, quelles choses! S’, sii!!
FENADORA: (viene a prendere Orlandina) Vien bein quand c’a te s’ciama, no?! (la porta via) T’le ved le due capesse d’lalbergo del Fico? (Contesca e Selvaggia sono inginocchiate sul primo banco) T’le ved, Orlanda?
REGENTE: Ah, ca in tel vedarle me vien intorno le sgrisaruole da la rabia!
FENADORA: Orlandeina, và imediatament da quele madonne e digli di liberarci subit quel banco ch’l’avem bein paghé e che ci spetta di diritto.
ORLANDINA: (a Contesca) A l’è un crève-coeur el partir, madonna, mé pour-tant è necessaire che vous satisferz le desir de ma duchesse e que vous liberez cet banc que nous avons pàjé al signor Tiberio campanaro.
CONTESCA: (la guarda appena e riprende a pregare alzando la voce) … et ne nos inducat in tentatione, (scandendo) sed libera nos a malo!...
ORLANDINA: Ne me prenez pas par imbècille, allez, allez! Nous l’avon bien pajé cet banc, enlevez vouz!
CONTESCA: Falla corta, cornacchietta, ch’o son savia all’impensata e pazza alla pensata e poco ci metto a urlarti anatemi e a farvi interdire l’accesso ai sacri luoghi!
ORLANDINA: (tirando per un braccio Contesca) Filez, mes cocottes, filez!
SELVAGGIA: Quieres tener la ambilidas de mandarte in mudar, babbioncita, que me pone de mal humor el mirarte. Yo stoy aca por cumplic con Dios y no para pelear con una putita de tres centavos! Y dile a la roffiana tuja que si a pagado el puesto, tambien nosotras lo emos pagado y bastante fuerte: tantos ducatos que todos ustedes juntas no valen ni un quarto. Quien mas da, mas recive! (si abbassa il velo sugli occhi per far capire che non ha altro da aggiungere)
VASCA: Ecco, braa, copriti il muso che fai schifo! S’ha da coprir di drappi na carogna che stomica a guardarla! Inutile che fai la virtidiosa, che si nù sèmo bagasce, vù siete troje peggio… (alzando il tono)
TIBERIO: (si avvicina a Vasca e a Orlandina e tenta di mandarle via) Largo, largo, madonne!
VASCA: Cuscine la tradisci la ganzetta tea, tune? Cuscine, Giuda?
FENADORA: Alto là, Vasca, Orlandina! L’accomodiamo in t’un alter mument quel slandùn lì! Adess basta: siamo pur in t’la casa di Cristo qua e non in t’un casino! Ehi, stai pure qua, dove l’è che vai, Orlandina?
ORLANDINA: Voi a truvé consolation: un segnor esplagnol me domandé… mi vai le chercher, je l’ai perdù, helas!...
REGENTE: E donca va, presto ca no te’l perde! Mo cori, al sangue del cancaro, ciàpelo! On sior pien de ducati! Ossù, và mò a catarlo, matazuola!
FENADORA: Troval bein, mettes d’accord e torna pur qua subit.
ORLANDINA: (si allontana dal gruppo e si imbatte in don Sabatano) Oh, là, mon bon prevost. Avez vous vist un gran signor espagnol coi cavei blanc?
DON SABATINO: Eccome no?! Ti ci porto io? Ti ci porto io, angeluzzo bello?
ORLANDINA: Vous le connaissez bien?
DON SABATINO: Eeh Uno con gran cappello impiumacchiato e comode bracacce alla spagnuola?
ORLANDINA: Oh, sì. C’est lui! Allons donc, que je suois trist senza lui…
DON SABOTINO: E se non lo troviamo? Ti stristo io, va bene? E lo sai come? Indovina! Eccola là che ride la furbetta! Allora il sai il come!
(Orlandina, sventata, lo segue. Escono, non visti. Entrano Contesca e Selvaggia Tspana. Altro giro di valzer lento del corteo. Contesca saluta Pompeo. Pompeo Colonna lascia il feretro ad un cardinale e si apparta con Contesca).
POMPEO COLONNA: Allora Contesca, che me dichi? Vorresti mejo un Colonna o un Medici sur trono de Pietro?
CONTESCA: Li medici chiamano malatie, messer Pompeo, le colonne sostengono e stanno ritte! (ride) Ma voir itornerete a uno de’ nostri concerti quanno che foste fatto Papa?
POMPEO COLONNA: (ride) A ‘n papa toccheno musiche sacre!
CONTESCA: Da noi si fanno musiche sacre e profane, monsignor Colonna! Chi le vòle sacre le averà sacre!
POMPEO COLONNA: Eh, le conosco le musiche che fate con quelle manuzze e quelle boccuzze sugli strumenti le mie manicorde! (ride e fa per allontanarsi)
CONTESCA: Ve ne volete gire? Ma come, ci lassate?
POMPEO COLONNA: (allontanandosi) Nun volete ‘n Papa Colonna? Fateme raccattà voti fra l’artri cardinali allotta! Che ve credete? Er Papato se paga!
(Esce. Altro giro di corteo, e del valzer. Ora è Giulio De’ Medici, che cede il suo posto ad un altro cardinale e si apparta con il cardinal Giberti).
GIULIO: Potete scegliere fra un Cellini, un Michelangelo e un Raffaello… Ma come garantirmi che avrò la vostra preferenza?
GIBERTI: Sono uomo de chiesa: questo vi basterà.
GIULIO: Non burliamo, patteggiamo seriamente!
GIBERTI: Ma sono serie, corno d’un bove! Anca se son cardinale, sono un uomo serio!
(Convinto, Giulio gli stende la mano. Grande manata, come zingari alla fiera dei cavalli. Il corteo esce. La pedana centrale ruota e torna ad essere parte d’una piazza romana. Le donne sedute all’osteria, sono tutte urbiache fradice. Alcune sono addirittura stese per terra).
REGENTE: (a Fenadora) Fenadora, ciama le pute, ch’andam a ca’, da braa! (Fenadora approva. Batte le mani, chiama a raccolta le ragazze).
REGENTE: Manca Orlandina! Dov’è Orlandina?
(Regente e Fenadora cercano Orlandina. Entra il Brandano. Scansa i corpi distesi delle ragazze ubriache e sale su una sedia. È scalzo, ha il saio ed una zucca per l’acqua, bisaccia e bastone. Orlandina sorride, beata)
REGENTE: (urla disperata) Orlandina! Orlandina!
(Don Sabatino fa per fuggire, ma le donne lo bloccano e lo immobilizzano).
REGENTE: El prèt l’aà impestàa, agieme ch’a son morta!
(Cade a sedere sul pozzo).
VASCA: Ma che sì fatto Orlandì? T’eri scordatu ca ‘sto prete tiene la brutta malattia de li franciosi? Dimme: el prete t’ha punzonata?
ORLANDINA: (piangendo) Sì, madamina, ma mi son innocent…
BONA: Hi che brutte journe t’aspettano… E tu prevete ‘e mmerda! Tu sì 0no crumminale, ‘n’animale, ‘no chiavico fetuso!
(Con l’aiuto di Fenadora, Regente si riprende).
REGENTE: A ca’, a ca’, tutte a ca’, nù e el pret onto a impestao e la pissota inorcà e mal imbatùa!
(Fenadora conduce la ritirata delle donne, che tengono stretto il prete terrorizzato e lo fanno entraere in casa, a pugni e calci.
Orto del Fico.
Rintocchi di campane, molto festosi, escono sulla veranda, Contesca e Selvaggia).
CONTESCA: Le campane, le campane! S’è aperto il conclave! Sirocchie, avremo presto il nuovo Papa, e sarà un papa nostrano, e la vita per Roma tornerà splendidamente splendida! Evviva Roma! Que viva Roma de los romanos!
(Pozzo Bianco.
Si affaccia ad una finestra Fenadora. Sente l’ultimo evviva di Contesca. Fa una lunga e rumorosa pernacchia, poi)
FENADORA: A morte Roma! A morte Roma!

FINE DEL PRIMO TEMPO

SECONDO TEMPO

I – Palazzo Riario
Val bene una tiara
Roma 1523. Siparietto con il quadro del Perugino che rappresenta Gesù che consegna le chiavi di san Pietro. Sono in scena i cardinali: Giulio De’ Medici e Pompeo Colonna.

GIULIO: I giovani cardinali sono tutti con me. Tu solo ancora tentenni, eppure è noto che Francesco ‘un l’ami punto.
POMPEO: (scattando) Fatte li fatti tua! Basta co’ l’intabeccati, co’ li bastardi incacati, co’ li spurii roffiani! Un Colonna nun tentenna, e pòle esse in siffatti casi o Papa o nimico!
GIULIO: O simoniaco ladro e pur sassino!
POMPEO: Ma non mai soddomita corrompitore d’anime e di corpi! Io voglio Roma pe’ tenemmela e non pe’ vennerla a Carli e a Franchesci! La Chiesa ha da esse una Ssanta Cattolita Apostolica Ro-ma-na! Per questo offro me stesso tutto, con tutto lo valore e la possanza e la lealtà de il Colonna!
GIULIO: Questo più tutte le ribalderìe e le lazzaronate nere che ben cognosciamo!
POMPEO: Segni di fortitudine son l’atti di difesa! I Medici nun ponno capirne lo valore, nutriti come sono d’arte sacra e profana, di schifezzerìe e d’ogni sorta di zozzeonarìe!
GIULIO: Facciamo troppe ciance, Pompeo, credimi. La torta è quasi tutta mia, a questo punto, solo una smilza fetta non mi tocca. Controlla pure e chiedi intorno intorno ai cardinali e poi… Meglio che siamo amici: in grado di aiutarci, aiuteremo Roma e la romana Chiesa.
GIBERTI: Giulio non mente e dunque non ti resta che rassegnarti e tendere la mano. Usa buonsenso e bona volontade, non complicare ché non è il momento: la Chiesa è minacciata fortemente, nuvole nere dense di corruccio s’addensan sul suo capo incupolato. Patteggiatore, fratelli per la salvezza della Chiesa di Cristo ch’ora langue d’anemia e di consunzione: Lutero e i barbari e la guerra incombono sul cielo di Roma immacolata. Siatevi buoni fratelli, siatevi compari, jettate via superbia e presunzione, marciate insieme e siate per la Chiesa, sostegno e cura.
GIULIO: Hai sentito, Pompeo? La Chiesa è minacciata. Ora abbisogna correre a’ ripari.
POMPEO: Tu pure l’hai sentito: “siate per lei sostegno” ha detto. E chi sostegne si non le Colonne?
GIULIO: “Sostegno e cura” ha detto et eziandio che “langue d’anemia e di consunzione” e chi la può curare l’ammalata se non uno de’ Medici? Ragiona, dammi il tuo voto, l’accetterei per umiltade e non per sete di dominio e ancora io potrei a tutti preferiti, una volta eletto Papa, e darti cariche altissime et onori immensi!
POMPEO: Anni et anni sono ch’aspetto di vedermi sur trono de Pietro e mò che faccio? Mollo tutto e m’inchino?...
GIULIO: Chi te lo dice che ti devi inchinare? Chi lo dice, Pompeo? La storia insegna che più che il titolato conta l’anima grigia che lo guida… un’anima ch’è grigia ecched’è bianca e che nera può diventar se l’abbisogna! “Sostegno e cura” sai cosa vuol dire? Vuol dire un’alleanza: i Medici e i Colonna.
POMPEO: Sì, sì va bbè! Ma, a conti fatti poi, come se menifestarìa quest’alleanza?
GIULIO: Ti farò secretario personale del Papa e cancelliere di Stato e poi e poi… e quindi dopo…
POMPEO: E quindi dopo?
GIULIO: (esita, poi, tutto d’un fiato) Ti regalo il palazzo di Riario e le prebende che deriveranno dalla divisione della dote. È già tuo, se mi vuoi bene, e palazzo Riario da solo vale una tiara… se non di più!
POMPEO: Tu dichi?...
GIULIO: Sostegno e cura, cura e sostegno: ti ricordi?
POMPEO: E sia sostegno e cura! (i due si abbracciano. Giulio raggiante si ritira e resta solo Pompeo) Metti la tiara e tientela ben salda con tutte e due le mani, che un Colonna non perde mai definitivamente! Attento, Giulio, che non è finita.

II – Il processo
Roma, Pozzo Bianco. Vasca e Fenadora sono davanti alla casa del Pozzo Bianco, in attesa di clienti. Entra un giovane cardinale, moro e ricciuto, bello ma volgare. Va verso Fenadora, le sorride. Fenadora lo guarda, sbigottita, poi sbotta a ridere e si butta tra le sue braccia.

FENADORA: (grida) Riccitele, disunest puttanein, urrebil sparvir, ma matt, ma bel, ma fradèl, mi tant amato!... A son pur cunteinta d’la tua fortouna!
(Si abbracciano e si baciano sotto lo sguardo smarrito di Vasca. Il “cardinale” è Riccitello.
RICCITELLO: (a Vasca) Venite dammecella, ca vàsove le mani e tutte cose! Come te fai chiamà, sdammella senzùsa?
(Vasca tace, imbarazzata, e sorride).
FENADORA: Quèst l’è mi cumpagna, Vasca da Saracinesco, la padrona dellla mia casa, l’albergo del Pozzo Bianco, dove io son duchessa!
RICCITELLO: Oh mamma mia, che uocchie e che vucchèlla!
(Vasca si inchina, sorride, ancora perplessa).
VASCA: Ma tu non fussi per casu gliu magnaccittu e Fenadora? Vigliu che era sparitu e la facèa ‘mpazziere? Eh, scusame sa che voglio sape’ tutto, ma io a la Fenadora gli voglio proprio bbene!
RICCITELLO: (abbracciandola) Cionca ccà! Fammele vedé ‘ste belle cianche che poi ce facimmo ‘na bbona ciaccona a tre, alla facciacca ‘e chillo ciamarrone ‘e cardinal Giberti, ca ma vuò redimere! (ride)
FENADORA: Ma dove l’è adès questo cardinal Giberti?
RICCITELLO: (ride) Sta ccà! Chiste so’ ‘e suttane soie! (si spoglia quindi dell’abito cardinalizio e rivela un costume borghese abbastanza elegante. Ride, poi serio).
FENADORA: Ma indova l’hai intrappolato, tu, questo cardinale?
RICCITELLO: Alle saline pontificie, m’ha sottatto, che a chillo loco ‘infernale m’arriddussero certe jacovellate mie catalojate – certi furtarelli sfortunati – ‘ntramente ca tu stavi rinzerrata a lù cancèlle! Lu cardinale è escito frenetico alle mie farenellate e’ farfariello gagliardo e tuosto… (ride maliziosamente) E mi s’è pigliato come garzone “tuttofare…”, e mo, tutto ‘o palazzo suio è mio. E fèceti cercare in tutta Roma, in Campomarzio, a Tor di Nona, all’albergo della Contesca da Fabiano… (Vasca e Fenadora si guardano) Embè cher’è?
FENADORA: Dì ben su la pratichi con confidenza la Contesca? Che mi è tanto in simpatia a me.. è la più signoril puttana di Roma…
RICCITELLO: E’ ‘nu tantillo chiaccìella ma m’è amica verace e costante, precché?
FENADORA: Niente, nietne…
RICCITELLO: (sorpreso) Gesù! E che dd’è.
FENADORA: E’ l’ora del processo!
RICCITELLO: Processo? Che processo?
VASCA: Avemu da processà du lestofanti… Statti ca e vedrai ca ti diverti!
(Escono dalla casa, Bona, Regente e Orlandina. Tengono stretti e legati, don Sabotino e Tiberio Toppi. Riccitello salta sul pozzo e si frega le mani: vuole spassarsela. Don Sabotino viene fatto sedefre su uno sgabello. È a disagio, gli sgurdi di rancore delle donne lo spaventano. Solo Orlandina sorride, beata. Sembra che non si renda conto di quanto accade. Silenzio. Fenadora, in veste di pubblica accusa, fa qualche passo con aria assorta. Silenzio. Fenadora punta l’indice contro il prete. Accusa)
FENADORA: Insomma prete, par colpa tòa la più bella personcina d’la casa a l’è piena di mal pervers, il guaritore s’è messo a zigar come un matt: sifilite! Allora? Parla! Cosa penseit te? Dem su, trest d’on prèt, come rimedi adess a tant duloùr, a tanto scapito? Ma propri la nostra più bella putaneina, anom affannà, t’ha volesto rovinare?
DON SABOTINO: (a bassa voce, colpevole) Ero sicuro d’esser sano pria d’incarnarla! Covella, galantina presentommisi durante il funerale d’Adriano. Inalborito, la menai al convento. Ella non si negava e non sentendo divieti, giù a darci merenda.
FENADORA: Al preit l’è sèmper un omen e l’omen l’è semper cazadoùr.
VASCA: E questa è la difesa, ma qual è la punitione?
FENADORA: Alcuna. L’important l’è che ci giuri su Domineddio il più assoluto silenzio. (urla al prete, minacciosa) Te l’Orlandina t’en l’è mai vista né cognossuda!
DON SABOTINO: Lo giuro sulla Madonna, madonne. Mai vista né cognosciuta! E ora pozzo ìrmene?
FENADORA: Ai ho i mì pruzett e i m’ paren boni. Bisogna dare a Orlandeina una parvènza et signurilitè e poi mandarla a lavurer da quele vacche dell’Orto del Fico e impestargnile tutti i spasimanti che le frequentano e quindi poi anche quelle superbiose! D’accordo?
(Applausi di tutti. Orlandina sorride. Ora è il turno di Tiberio, che viene fatto sedere sullo sgabello. Fenadora riprende la sua veste di pubblica accusa).
FENADORA: (con scherno, a Tiberio) A t’ ste zett, ehn? A t’ cunvien bèin ormai traditur!
TIBERIO: Non fossi suto costretto da potenti non avrìa tradito.
(Si ferma. Fenadora ride).
FENADORA: Animo: disi bein adess, che mi sarà grazious l’imparar come si pòl vegnir costretti a… (bieca) a tradiment siffàt ch’al ziga vendetta al cuspett d’ogni dio!...
TIBERIO: (piagnucoloso) E cardinali e nobili e guerrieri, tutti a sforzarmi! E tutte le altre zoccole nimiche vostre ma possenti de l’amicizia che li granduomini – lor ganzi – conservano a covelle lamie bianche! E lo terror che mi venga tolto l’incarico alla Chiesa di San Pietro che per me starìa a significare fame negra e perdita d’ogni rispetto! Ecco come se po’ redurse al tradimento! Voi non tenete protettori e se non sète protette voi, me, chi mi protegge?
(Riccitello scoppia a ridere. Tiberio lo guarda, stupito).
RICCITELLO: (serio) Tu! Se penzi ca so’ nato ad Antegnano, fa sì da ricrederti! Aggio strutto cchiù valentommini io, che tutte in mazzo le puttane tue? Embe’ M’arrispundi?
TIBERIO: Io?... Nol so…
RICCITELLO: (guappo) Riccitello da Formia song’io! Lo cchiù protetto de lo cchiù protetto: Giulio de’ Medici futuro Papa! Se guardi a me vedi lo cardinal Giberti a poscia dopo lu Papa! Io son Giberti e son il Papa e pozzo altro che tòrti allo mestiere tuio de roffianaccio ecclesiastico! Se caccio lu pollice, io te comprimo come ‘na cirasa che tutto sangue schizzi intanto che te spolpa! (esaltandosi) Io son lo protettore e’ Fenadora, e se tieni caro l’officio tuuio in Santo Pietro piègamenti innate e priega! Arricurdatene!
TIBERIO: (con un fil di voce) Sì… ora ti riconsoco e m’impegno a portarti ubbidienza e conne riguardo che ti conviene.
(Le puttane sorridono soddisfatte. Fenadora va ad abbracciare Riccitello. Riprende)
FENADORA: I piani, tutti i disegnio e i calcoli e le speranze di quelle bistroje! Avanti parla!
TIBERIO: Vincervi vònno e ringrandirsi nella ruìna vostra: prendersi quest’albergo e l’orto che lo separa, già in loro possesso. Le vònno primeggiare unite, uniche e sole puttane collegiali in Roma. E prospettano d’arruolare nòve sdamucce e far commercio in grande…
FENADORA: (lo blocca con un gesto) Alto, zett adess! Arruolan nòve puttaneine, at dis! Bein! L’Orlandina Savojarda ha tutti I numeri per esser presa. E, piena ormai com che l’è de mal pervers, aiutata dalle sante protettore, tutte colleghe troje impesterà e tutti i nobiloni clienti de madonna Congtesca.
REGENTE: Corajo, Orlanda, che quel che fa la Fenadora sarà ben fatto, e altro no te resta ca ringrassiare tute le personalità del Paraiso che i t’ha mandè ‘sta santa malattia.
ORLANDINA: Una merde que te barbouille!
FENADORA: Altolà, basta! Aloura, Tiberio, l’Orlandina è pronta; aspetta solo d’esser condotta a le nemighe nostre: t’arriva chiaro quel che intendo dir?
TIBERIO: Chiaro, chiaro.
RICCITELLO: Ce la meniamo noi e ci rendiamo garanti a la Contesca.
TIBERIO: Sì, sì d’accordo, come no?
FENADORA: No, non è ben preparata ancora…
RICCITELLO: (guarda Orlandina, voglioso) E qualche trucco d’ammore è capace che glielo pozzo imparà pur’io…
(Va a toccare Orlandina, ma Fenadora lo ferma bruscamente).
FENADORA: Basta là Riccitè! L’Orlandina non l’è roba per te!...
RICCITELLO: Tieni ragione, ca quasi me scurdavo…
FENADORA: (a Tiberio) Tu traditor se vòi che te pardoni il tradiment, va a la Contesca a preparar la via. Dì ch’ai trovato una putanèina di diciott’anni che…
TIBERIO: (sollevato) Sì, sì che ho capito. So roffianeggiare gagliardamente! Chi mercanteggia in Chiesa, combina al lupanare!

III – Papa Medici
Orto del Fico.

CONTESCA: E’ Giulio! E’ Giulio! Dopo cinquanta giorni di doglie, la Chiesa ha ripartorito un Medici!
(Contesca, pazza di gioia, scende davanti a casa. Dal Fico scende anche un’altra “corista”, la bella Pantasilea).
PANTASILEA: Viva i Medici! Viva Giulio, papa Clemente VII!
CONTESCA: Viva la Chiesa Romana di Clemente VII!
(Contesca e Pantasilea si abbracciano).
RICCITELLO: Viva ‘o protettore mio! Viva a Clemente VII!

IV – Clemente VII tra due fuochi

CLEMENTE: Son lieto di vederti liberato, Francesco, se’ salvo et anche s’hai perduto, io ti rimango amico come sempre. Ma come Francesco allor sarìa bugiardo!? È vero, ho ritrattato li nostro patto segreto, ma era solo strategia. Vuoi nova prova della mia lealtà? Tu firmsti a Madrid un trattato con Carlo, in cui ti impegnasti a risepttar le sue conquiste, ebbene è presto fatto, va ti sciolgo dal giuramento. Faremo una nuova alleanza contro Carlo, se’ contento figliolo? Saluto il vincitore, il grande Carlo V, ma dimmi, Carletto, mi dicon che sulle tue terre il sole un tramonta mai. Roma però, ce la lasciamo all’ombra, no? Io avrei cercato di toglierti il marchese di Pescara, tuo fedelissimo generale, per il mio esercito? Ma è falso. E nond ire sai che sono un mentiroso. A un Papa un si dice. E poi ti giuro che un è vero. Il Papa gliè infallibile. Un lo sai!? Io un mento, un mento, un mento. Ah lo vedo, lo vedo! Io lo so bene che un si po’ più sperare da voi due. Ve lo do un consiglio santo? Ovvia! Perché un fate la pace sotto la mia papale mediazione? E, mediatore santo e illuminato, un mi donate Reggio, Rubiera e il monopolio del sale in territorio milanese. Ovvia un me lo date? Davvero non volete, che poi magari tutti e tre contenti, papa Clemente, Carlo con Francesco, si va addosso al turco infame e tutti e tre ci pigliam gioco a distrugger l’infedele. (in un orecchio a Francesco) Francesco mio senti cosa faremo, l’annienteremo questo superbioso d’ispano intedescato e morte a Carlo. (a Carlo) Carlo me la confermi la signoria De’ Medici in Firenze? (a Francesco) Francesco, bono, e fai la donazione del sale di Milano al Vaticano! E tu Carlo, darai Reggio e Rubiera! (a Carlo) Ma come traditor, perché Papa payaso sangre su Roma y sangre sul papato? Dio mio, che esagerato. Io multe un ne pago, ma vi giuro che non vi inganno più: peccato confessato, peccato perdonato. T’ha sentito Francesco, l’eretico sfrontato, oh che ti pare il modo di trattare un Pontefice, malnato! Che vole, il sangue? E noi glielo daremo, nel suo sangue bollente noi due lo affogheremo. E non dite che mento o sono guai, un Papa anche bugiardo un po’ mentire mai!

V – L’educazione di Orlandina

Roma 1526. Pozzo Bianco. Orlandina ha sui fianchi un cerchio infiocchettato: cerca di tenerlo in equilibrio dimenandosi, ma non ci riesce. Sotto la guida di Vasca, recita, piangendo, dei versi latini, senza capire quello che dice.

ORLANDINA: Vidisti maium circum brottalia porcos quam sint ingordi lodam sorbene menestram? (singhiozza) Sic illos retrovat Cingor mangiare… (esita) La Chiarinam… (Vasca la percuote con una bacchetta. Orlandina piange più forte) Elàas che mi son lassa, che semper mi percuoti a la baguetta! Tu sei mescianta assé, aiatemi pour Dieu che vengo meno! Pauvret de mi che mal eu fé?
VASCA: Sono journi infiniti che trascorro a farti mettere in la zucca poche rime e ancora falli, e poni l’articulo nel parlar latino! Chiarinam e no “la” Chiarinam, somaraccia!
ORLANDINA: Mi non parlo ni latrino ni trusco! Mi non ho mai sté zanzeando per Academìe… Non ho ni talent ni art! Che sono notti e notti che no peu dormir pour fèr dictione e bal e manicordo! (si toglie il cerchio e lo getta a terra) Assé! Son lassa! Tutto questo apprandr art pour finir in un altro bordèl a scapochiar panocchie! Che m’interess a me del sapere, se mi son bèle? Il pretre Sabotino dis che Roma peu esser touta mia pout la mia boté!
VASCA: Andemo Orlandina, che si ricomincia. Intanto spogliati che si va alla vestitione…
(Orlandina si spoglia: Regente, Vasca e Fenadora si occupanod i lei; chi la pettina, chi le cura le mani, chi le trucca il viso. Regente spalma su di lei una pomata)
REGENTE: Mo’ te goerném le piaghe, gnan più una se n’à da vedàr! Co’ un puoco de ‘sta pomada pian piaeto le converzemo tute, ahn?
(Orlandina si lasci fare, docile)
VASCA: Non perdere tempo, recita un poco de historia letteraria…
ORLANDINA: Francesco fu partorito da madonna Eletta de’ Canigiani, mogliera de ser Petracco, esulo da Firenze in Arezzo…
FENADORA: (pettinandola) Dime bein un sonett, Orlandeina…
ORLANDINA: Sì madonna. (recita automaticamente) De l’empia Babilonia ond’è fuggita ogni vergogna, ond’ogni ben è fòri albergo di dolor, madre d’errori son fuggito io per allungar la vita…
REGENTE: Vuoltate in sul cul, ca aemo da far la schina…
(Regente e Vasca le passano sulla pelle una spugnetta di pomata,mentre Fenadora prepara un sontuoso abito di broccato bianco, scarpette, calze e velo da testa).
ORLANDINA: Che lassa! Che lassa!
REGENTE: Pèzo par ti, bacuca! No ti ga visto che el prete gera pien de sporcarìe indosso. No, ah? E mo’ pèzo par ti, to dano!
(Orlandina viene vestita).
FENADORA: Come s’ha da dire a un nobile politico che ti guarda con un certo interesse?
ORLANDINA: (affettata) Com’è, monsignore l’attuale stato della politica?
FENADORA: Bein, bein…! Se ti viene domandato di esibirti nel cerchio, cosa rispondi?
ORLANDINA: (c.s.) Oh, saria fortemente mortificata se la mia esibizione apparisse immodesta e inducesse le loro signorie a pensare di me cose da far colorare di vermiglio le mie gote…
FENADORA: Brava. E se poi insistono, cosa rispondi?
ORLANDINA: Tersicore mi guidi e la bontà vostra mi conceda un compatimento che non merito… (sorride, maliziosa) E poi ballo nel cerchio con meno goffagine e più valore!
(Le ragazze sorridono. Entrano Tiberio Toppi e Riccitello).
TIBERIO: Siamo in buon punto?
VASCA: Che gli hai dittu a velle, Tibbé? L’attendono con piacere?
TIBERIO: Sine. Credono che si tratti di nobile pellegrina giunta in Roma dalla Savoia per santificare nelle basiliche l’Annata Santa. (sospira) Che Domineddio ce la mandi buona!
REGENTE: Coss’egi, nò? Coss’eli ‘sti sospiari? Varda che razza de madonina ca la pare dopo che l’aemo inasià e preparà mejo de ‘na qualche principessa!
FENADORA: Cosa l’è mai quel muso nero, Riccitel, co’è successo?
RICCITELLO: E’ pe’ a pulitica ca se sta intorcinanno: sto Papa fetuso ha voluto firmà nu pattu secreto co Francisco, le notizie che avimmo da Pavia so poco buone. (esce)
REGENTE: Ecco, pronta! Fate vardar ben Orlanda! Te me pari na ghirlanda…
(Orlandina passeggia per la stanza, si pavoneggia nel suo abito nuovo, ancheggiando grottescamente e sorridendo in modo stereotipato. Fenadora la guarda con occhio disperato: scuote il capo, sconsolata).
VASCA: Fa la lleverenza!
(Orlandina si inchina: peggio che mai. Barcolla, si riprende, scoppia a piangere e corre a rifugiarsi da Vasca).
RICCITELLO: (trafelato) Francesco è prigioniero a Pavia! Carlo lo tiene e vince sui franciosi! Roma e lu Papato stannoin pericolo!
TIBERIO: Bisogna affrettarci. E’ meglio andare con la nostra bella pellegrina.
ORLANDINA: Ohimé, peregrine moi!...
FENADORA: Mò piangi ancora? Ma lo sai, Orlandeina, che, grazie alla tua lue, noi del Pozzo Bianco sarem le regine di Roma e quelle del Fico finiran sulla carretta de le impestate? E aloura?
ORLANDINA: Mi non ci vuol ire a la mazon de le nemìe! Mi non voult lassar lo Pozzo Bianco.
FENADORA: Che sono codesti ischiamazzi in sul momento decisivo, treccolona? Zett, basta! (a Tiberio) Andate!
(Vasca asciuga gli occhi di Orlandina, che si è di nuovo rassegnata ed è pronta al suo destino. Sorride tra le lagrime. Fenadora l’abbraccia, rabbonita. Orlandina si scioglie e fa qualche passo di danza, con una certa eleganza).
FENADORA: Il disegno di Domineddio sulla tua persona è pur grandioso, Orlanda! Vai ben fiera de la toa sorte… che son infin inviliosa de le superbe imprese che ti aspettan…
TIBERIO: Si fa tardi…
FENADORA: Andiam sù, forza! Lotta e vinci per la nostra vittoria!
(Orlandina sorride, rassegnata. Fa qualche passo con composta signorilità. Ondeggia, si riprende, va più spedita. Fa una riverenza alle compagne).
ORLANDINA: Adieu madamine!
(Tiberio le tende il braccio, compunto. Escono a braccetto, come per una cerimonia. Musica nuziale)
La Ballata del mal francioso
Se tu del mal francioso ogni segreto,
amico, vuoi sapere e pur parlare,
alle puttane non andar dereto
così che quel dolor non puoi provare.
Dammi ascolto con animo discreto
se non ti vuoi con Francia imparentare.
A quel dolore non andare sposo
rifuggi, amico, da quel mal francioso!
E voi che vi donate a nuovi amori
aprite bene gli occhi o miei fratelli:
sette pene del pene, poverelli,
son proprio gravi, e sette, quei dolori.
Perché questo ribaldo e traditore
per prima cosa visita il cervello;
per dimostrar la forza e il suo valore
nella testa s’arrocca e si fa bello!
A quei dolori non andate sposi
ma rifuggite da quei mal franciosi
ecco il secondo poi che si presenta
e da ciascun ti fa mostrare a dito
ecco la faccia tua che sembra spenta:
cade il pelo dal viso e ‘l fa pulito.
Che Dio ti guardi ormai dal dolor terzo:
ad uno ad uno cascano li denti
t’assicuro non è un gran bello scherzo
non c’è da rider né da star contenti!
A quei dolori non andate sposi
ma rifuggite da quei mal franciosi.
Seguon poi le bolle dilettose
che dal francioso a te danno corona
nel viso fioriran come le rose
e non faran di te bella persona!
Eccoti il quinto e ‘l suo valore è tanto
che lingua o membro mai lascia posare:
entra nell’ossa tue e grido e pianto
ad ogni luna ti fa rinnovare.
A quei dolori non andate sposi
ma rifuggite da quei mal franciosi.
Poi viene il sesto falso e maledetto:
pregna di vento e di cattivo umore
sotto le piante cresce con dispetto
una vescica grossa come un cuore.
O settimo dolor più ch’altro atroce
o maledetta piaga dell’Inferno!
La carne mangi e grida la mia voce
in questo mondo e in quello ch’è più eterno!
Come trovasti o diavol scellerato
un soffrire sì grande e disgraziato?
A quei dolori non andate sposi
rifuggite dai sette mal franciosi.

VI – La pellegrinuzza fa visita alle coriste
Roma 1526. Orto del Fico. Fanno salotto i cardinali Giberti e Pompeo Colonna, Riccitello, Contesca e Pantasilea, queste ultime stanno dando un concertino, su una pedana addobbata con fiori e illuminata da candele. Gli ospiti ascoltano assorti. Commenti a soggetto. Poi Pompeo si unisce alle donne e, carponi, cerca le castagne sbirciando trale gonne e le scollature. Risate e applausi. Poi Contesca si alza, si ricompone, prende Orlandina per un braccio, la presenta.

CONTESCA: (al centro della stanza) Attenti, signori! Havvi infra noi una giovane donna savojarda pellegrina divota in Roma per l’Anno Santo, trovatasi tutta soletta e un tantino triste: ecco che si è degnata di accettare la nostra ospitalità. Questa graziosa testa indorata, questo visino d’agnoletta, questa persona ghiottarella – compita e pratica di ogni arte e finezza – chiamasi Orlandina Savojarda, orfana e libera!
(Orlandina sorride e fa goffe riverenze. Gli ospiti la salutano con un applauso. Riccitello la guarda, sornione, e le fa l’occhiolino. Orlandina sta per tradirsi, ma Tiberio interviene e con uno strattone le impedisce di rispondere a Riccitello. Pompeo Colonna attira a sé Orlandina e la fa sedere sulle sue ginocchia).
POMPEO: (eccitato) La mia calandrina! Ce stai bene a cavacecio de tata Pompeo? (Orlandina sorride, assentendo) Chiotta, chiotta ehn? La mia cottoiella! Ch’hai la lingua mozzata?
(Orlandina ride, poi si concentra. Sta per dire qualcosa. Tutti pendono dalle sue labbra. Pompeo le accarezza i seni).
ORLANDINA: Che pensate, monsignor Pompeo, dello attuale stato della politica?
POMPEO: Oh, non sei poi così menda squarsci come pari se ti diletti di politica!...
ORLANDINA: Io sono ribellona e mattarella, rispondo per in busse e per in basse!
CONTESCA: La pellegrinuzza mi piace, parmi che renda.
TIBERIO: Orlandina po’ aggiugne rinomanza e la rinomanza de ‘sto casato vostro!
ORLANDINA: Così se vince Carlo, tengo per Francesco e se vince Francesco, sto per Carlo. Amo lo Papa e la sua Santa Chiesa, ché son divota e dabbene…
POMPEO: Ami Clemente? Scenni, scenni da me!
(Orlandina lo guarda, sgomenta. Gli altri si divertono. Pompeo sembra davvero arrabbiato).
GIBERTI: Quel pincherellone cacaprudenza!
POMPEO: ‘La carognaccia d’un Papa, prima ha sciorto Francesco da giuramenti a Carlo, e mo’ aritresca contro l’Impero!
MONCADA: My Emperador lo odia sin remisiòn! No hay carcel para un hombre tan sucio.
GIBERTI: Sapete c’ho suto? Ha tentato de fregasse er mejo generale de Carlo, er marchese de Pescara, pe’ fallo ì proprio contro a Carlo!
POMPEO: Questo l’altr’anno… e mo’ ‘st’impunito ha scatenato er condottiero der piffero, Giovanni da le Bende Nere, contro lo Sforza de Milano, vassallo de Carlo! Nun se ne po’ più…
MONCADA: La cuchara està llena ahora falta servirse del cuchillo! El medita la muerte y solo muerte!
ORLANDINA: Le moniche m’hanno imparato che il Papa è sempre da rispettare e da volergli bene… (le scappa detto) Anche se è leccaculo! (risata generale. Pompeo Colonna torna a divertirsi. Sculaccia Orlandina e se la rimette sulle ginocchia).
POMPEO: A me, a me voglimi bene! Lassalo perde il Papa! Io per lo meno non tradisco nessuno, non abbandono l’amico che perde per passare a servire il nuovo padrone.
MONCADA: Oh, Pompeo lìbrame del suplicio de tener un Papa tan tristo!
POMPEO: Clemente, al contrario, quando Francesco perde a Pavia, volgegli il culo e corre a frifignare dal vincitore. E ora che Francesco è di nuovo libero, torna di nuovo a patteggiare con lui! Puah… che schifo di Papa!
RICCITELLO: Eppure, m onsignore, in casa dei Colonna propriamente è suto fatto banchetto grandioso per concludere il tradimento di Clemente a Francesco e salutare l’alleanza con Carlo…
POMPEO: Francesco andava aiutato per malizia, proprio per farlo reggere in lotta e che si mordessero come cani fino all’isbranamento completo.
RICCITELLO: Gesù! E precché tanto crudelitate?
POMPEO: Perché sei un fregnone e non capisci gnente de politica!
MONCADA: Tu seràs Papa, Pompeo: palabra de mi Emperador Carlos Quinto!
GIBERTI: Io penzo che dovremo cojelo de sorpresa quer cancaroso e po’ rendelo innocuo e poi…
MONCADA: Bienvenido un nuevo Papa! Y el sarà Pompeo Colonna! Y este nuevo papa Colonna habrà per siempre la reconocenzia de Carlo Quinto Emperador de todo el mundo!
GIBERTI: Roma pretende libertà e giustizia.
RICCITELLO: Giusto, che c’è di peggio der Clero?
GIBERTI: Nel clero solo una cosa, pare, miracolosa: che il dio de’ giustizia tolleri sì a lungo tanti delitti e sacrilegi.
POMPEO: Io son pur prete, ma dico che Roma va liberata dalla vergognosa disciplina del Clero. Meglio una Roma senza Papa che ‘na Roma tradita di Papi traditori. Pe’ questo vi dico a morte Roma.
MONCADA: Bienvienido un nuevo Papa! Y el serà Pompeo Colonna!
POMPEO: E tremila fanti guidati dai Colonna son pronti a morire per la libertà di Roma, marceranno contro il palazzo.
CONTESCA: E noi siamo dalla parte dei Colonna contro il bubbone che infetta Roma.
POMPEO: E noi che famo mo? Che famo? Toh, s’è abbioccata. (riferendosi a Orlandina) E dunque a me metterla a letto!
CONTESCA: La savojarda piace, rende. Ci facciamo una carta di contratto, Tiberio?
TIBERIO: E madesì che lo facciamo il contratto!
POMPEO: Ti porto a letto, ocuzza bianca mia?
ORLANDINA: Sììì, che sola mi fa tanta paura il dormire!
CONTESCA: Spero che aggiunga molto in quest’albergo la presenza sua!

VII – La Lue
Roma 1527. Pozzo Bianco e Orto del Fico. Pozzo Bianco. Pompeo Colonna entra nello spazio del Pozzo Bianco. Sedute sulle panche, seminude, Vasca, Bona e regente. Fenadora, in piedi, va incontro a Pompeo Colonna

FENADORA: A l’è pur on onoùr monsignòr Pompeo!
(Pompeo non risponde. Ispeziona e palpa le tre donne, come un commerciante di buoi)
POMPEO: Son proprio toste e dure e naturali forte! Le comparacce de la Contesca – tranne una – paion capponi usi al chiuso, e di pellacchia bianca e sbrodolosa ché le ler carni sgusciano in tra le dita come pasta mal lievitata.
(Tocca Regente, che sbotta a ridere).
REGENTE: Ah no cussita, ser Pompeo, ca me vien la gatarisola!
POMPEO: Così t’agiti anche su le cavalcate tune, eh, zurlinetta?
REGENTE: (modesta) Nù a sem matazzuole de campagna, femene che sa gòdarse quando l’omo ne sta suso! (ride. Caio guarda Bona, Regente e Vasca, poi a Fenadora. Regente s’inchina) La napolitana linguadoro. (Bona s’inchina) E la ciuciara tette di ferro! (Vasca s’inchina. Ride e porge a Fenadora un sacchetto di ducati) E questo è oro!
(Pompeo sta per entrare nella casa con le tre, ma Fenadora o blocca e lo fissa negli occhi, maliziosamente).
FENADORA: Come l’è messer Pompeo che disertate la ca’ de la Contesca, che fin qui avete preferito a ogni altra in Roma? Che succede, ehn?
POMPEO: (sottovoce) Se ne dicon troppe, di quelle!
FENADORA: Si sussurra messer Pompeo, che il vostro arnese patisce di ruggine!
POMPEO: (indispettito) Chi? Chi ha osato? Si faccia sotto che gli sgarro il cioncio con una botta sola, a quello!
FENADORA: “Quella”, messer Pompeo, non “quello”! La madonna Contesca diffonde cotali tanto amari rendiconti!
POMPEO: Questo dice di me la pascipecora leutica? L’annegacazzi impestata! A dimostrazione de la valentìa superba del pincone mio colonnesco, le tre pincette ch’ho adoperato, ne faran garanzia a quel branco di vacche sifilitiche!
FENADORA: Tanto le tacciate di mal francioso, che vien d’averne sospetto di verità. Eh, ser Pompeo: fosse che si fossero pigliate un buon sbruffo di schincio da un qualche uccello che starnuta lue? Ehn?
POMPEO: Non l’affermo e no ‘l nego che son da bene e non reca onore sputtanar puttane!
(Ride. Le altre gli fanno coro. Ma Fenadora non è ancora convinta).
FENADORA: Sendo che sète om d’onore, ser Pompeo, dite in sincera sincerità: avete avuto contagio?
POMPEO: (scandalizzato) Io?! Un Colonna? Io impestato, madonna? Ma il sparvierone mio si fida de l’occhi e non prova col becco quanto ha udito! Io son sano e forte e potente, son Pompeo Colonna!

Orto del Fico.
Entrano nello spazio del Fico, Contesca e Moncada. L’ambasciatore è congestionato. Urla, stravolto, continuando un discorso

MONCADA: Es lue! Es lue! La nina tene el maxilar tendido como guitarra y el seno de la puta tenea bayas de fuego! (melodramamtico) La lu se la disfrazado con vestituras de derecha doncela par matar el noble indomable Ugo de Moncada!
CONTESCA: (indignata) Amutisco. Ma per dispregio e offesa taccio senor Ambasciatore!
MONCADA: El senor Ambasciador d’Espana, madonita del ma francioso, dice que tu moriràs en oscutra carcel y contigo todas tus putas!
CONTESCA: (gelida) Per Santa Nafissa! La savojarda che passò teco il martello è bella e sana come un cherubino! Vendémi nebbia con cotali accuse e sospettamenti.
MONCADA: (esasperato) Yo soy un hombre y estoy con dos ojos abiertos. Digo cosas que veo y las cosas que he visto bastame por empujarve, angeles atroces! A la carreta! A la carreta! (esce)
CONTESCA: Fumoso di merda! Ci vòle insgallinare codesto menda squarci, alla carretta ci vòl vedere! Sbraita, lui, per farmi ricriccare! E ‘nvece no! Che venga un medico a far notomia sulle sirocchie mia. Che venga un medico a spezionare e che il Moncada si pentisca ché tutte le minacce che allotta mi slancia sul groppone, han da cadere. Avanti, forza! Un medico. Si va a passar l’esame! Ragazze Tutte nude qui in sala: nude nude!

Pozzo Bianco.
Entrano Bona, Vasca, Regente e Fenadora, seguite da un vecchio medico. Musica: tema della sifilide. Silenzio. Il medico ispeziona Regente.

MEDICO: Lue: è sifilide bona!
(Regente sussulta e comincia a gridare, isterica. Il medico ispeziona Vasca)
REGENTE: (urla, verso Bona) Tuto par colpa tòa, sàfica de ‘na lecona! Lendenosa cantoniera, ca tutte ti à volesto métarne in pratica dopo aver sbisegà veci stomagosi pieni de peste e colera!
MEDICO: (ispezionando Vasca) Lue bona. (a Regente)
BONA: State bbona, sa! Bbona! Ma che vaje pazziando, tune? Ma che vulite ‘e me? Nun m’ha spezionata ancora ma so’ sana, io. Come ‘nu pisce!
VASCA: Scappavi di notte a far commerci lesbici co’ chissà quali carogne da lazzaretto! E co’ vecchioni colamoccio! Se’ tu la scrofolaccia impestata, la porta-lue!
FENADORA: Fàmm bein saveir, sporcona traditora, in coscienza, desim bein adess, sei tu la porta-lue?
(Bona si sente minacciata: afferra una bottiglia, ne rompe il collo, e mostra il vetro aguzzo alle compagne)
BONA: (urlando) None, none, nooo! Maramé sfortunata, stete sempre contra a mmene, comme ‘na rennejata me trattate! Lo ddigo n’autra vota: sarraje stata ‘na becchia jannara, na fattocchiara n’fame, vavasao, caca-lietto, ‘nchiajata peretera, affoca peccerille, si tenendo ‘n cuorpo lue e sifilide me fossi restata a chist’albergo pe’ arruvinarve tutte! Oh, puorco mondo schevenzuoso, faciteme spezzione e poi vedimmo! (si stende sul tavolo e chiama il medico, che esita) Venite accà: comme all’autre, facite spezzione, eccomi nufa e senza vergogna!
(Il medico la ispeziona. Silenzio. Bona si rialza, muta e trionfante)
FENADORA: Non resta che farte nostre scuse, Bona! Adess a mi!
(Il medico ispeziona Fenadora).
BONA: Aggio subbìto troppo vituperio, ma i’ so’ netta de ‘nnore e ggiuro che non sarò co’ vuie traditora. Non diciarò a nisciuno de lo stato vostro, starrò cecata e muta. Maje cchiù ‘na paroal sul vostro mal francioso! I’ me n’arrò pe’ la strada mia e niente cchiù, ma me siento scommuossa a lassarve, sirocchie! (piange)
MEDICO: (terminata l’ispezione a Fenadora) C’è contagio evidente, madonna.
FENADORA: Santa Nafissa! Ma c’è rimedio?
(Entra Tiberio)
TIBERIO: Brutte nuove, madonne: ‘na guardia papalina m’ha dato ‘sta carte pe’ voi!
BONA: E legge!
TIBERIO: (leggendo) E’ un ordine di sfratto, ‘n’ordinanza der Papa! Avete da lassà ‘sta casa entro li trenta dì da domane!
BONA: I’ vaco, sore mie: ammartellata ma… (inghiotte) M’aggio ‘a salvà, capitemi! Io nun pozzo arrischià la salute mia… Ho da sfamare l’uommene pe’ sfamà me stessa! Addio: bona fortuna! (esce)
MEDICO: (intasca i soldi da Fenadora) Un omo d’honor non parla. Lo secreto va rispettato… e pe’ fallo rispetta, va nutricato con l’oro: Le cortiggiane ammorbate da lue vengono priggionate e poi messe in su ‘na barca con poca acqua e poco pane e sperdute nel mare.
(Le donne rientrano in casa mestamente. Alta la musica: tema della sifilide)
ANGELO: Madonne! Tremila fanti romani, guidati dal Colonna, pronti a morire per la libertà di Roma, marciano contro il Papa!

VIII – Lamentazione per Roma condannata a morte

VASCA: Ahi, sconsolata me, misera Roam
presto li Lanzi t’avran fatta doma
sarrai saccajata!
FENADORA: An posso più dormì ca sogno Roma
che in man del Lanciman è messa a foco
e tutta el la conzoma.
REGENTE: Quando che i altri dorme tutti quanti
mi no posso dormir ca penso a Roma
condannata a morir.
BONA: Tutta stanotte n’aggio mai dormito
che Roma m’arriduce a pazziare
dacché s’è malata.
SELVAGGIA: Roma ès de todos, es de todo el mundo
es tambien mia y dunque estoy llodando
y perdo la chaveta
ORLANDINA: Mére de tout estrangers Rome babele!
Rome que tu m’appartiens, Rome cruelle
tu mourras, je te plains.
CONTESCA: Pingue vivesti in ameni conforti
or porti invidia agli defunti ei morti
Roma mia scriteriata!
TUTTE: Amor de Roma a morte ti conduce
cortigiana sventata e generosa
il nuovo amante a morte ti riduce
in sua man sfiorirai, splendida rosa.
Ahi che a dir Roma alla riversa
amor si dice.
Ingrati amici t’han voluta persa
l’ultimo ganzo ancor ti maledice
mentre t’uccide.
Quanto ti costa, Roma, il troppo amore
quanto costa a chi t’ama
il vederti morire.

IX – Il tesoro Vaticano
Palazzo. Il Papa, Liberti, Schomberg

CLEMENTE: Si permetterà che una masnada di Colonna metta a sacco la casa di Cristo, che poi è anche la mia? Che risponde il mio popolo? M’aiuteranno li miei romani, eh Gianmatteo?
GIBERTI: (esitante) Meglior partito sarìa cercar refugio in Sant’Agnolo, Santità.
CLEMENTE: Ma perché non mi si ama, in Roma: perché van dicendo e che son ingordo e infin che lì opprimo e con dazi e con imposte esose! Ma come si dèe fare allora per isfamar lo tanto Clero? La colpa è che son suti fatti troppi cardinali, ecco!
SCHOMBERG: Zantità, non si deve pertere altro tempo. Molto più prutente in hora ti periculo, recarsi in Castel Sant’Anghelo! Colonna fuola morte de’ Papa!
(Clemente lo guarda con odio poi, tutto imbronciato, corre a sedersi sul trono).
CLEMENTE: E invece no! Io aspetto in sul trono di Pietro, come già fece Bonifacio VIII! L’aspetto qui il nemico, io! (dall’esterno, grida e spari. Clemente VII, è sbigottito) Ma che fanno, vengono davvero? (va da Schomberg) Me la faresti una grazia santa? Urge abboccarsi col Moncada, che metta pace: deve ordinare ai Colonna di fare i giudiziosi! Che gnelo dicesse in nome di Carlo V!
SCHOMBERG: Sua Zantità più tratimenti fato a Carlos che Sacto Pietro a Cristo! Hora lui stufo di sempre conzetere sui pertoni… Impasciator Moncada no fuole responzapilità con nostro imperator! Cosa prutente par Zantità fuga in Sacto Anghelo est!
(Grida e spari dall’esterno).
GIBERTI: (al Papa, come ad un bambino) Il cardinale Schomberg non ha torto, Santità. Parmi più prudente riparare in Sant’Agnolo e starsene là rinchiusi al sicuro fintanto ch’ogni cosa non s’aggiusti
CLEMENTE: I’ non ci vo’ ire in Sant’Angelo se lui non va da Moncada a metter bene! O non s’usa più ubbidire al proprio Papa?
SCHOMBERG: Zi profo, Zantità!
(Schomberg bacia la mano a Clemente ed esce).
GIBERTI: Ecco fatto! Mo’ vogliamo metterci al riparo? Il tempo corre e quelli s’avvicinano sempre più! Dalla galleria sotterranea siamo ancora in tempo! O ve li volete trovare dinante co’ le spadone loro e l’alabardacce che mozzan teste con un colpo solo?
CLEMENTE: E tutti li miei belli tesori? Non si pònno portar con noi, Gianmatteo? (calpestio, voci e spari. Il Cardinal Giberti prende per mano il Papa, lo spinge alla fuga. Clemente recalcitra. Giberti lo spinge per il cordone. Fanno una specie di gioco della fune) Se mi piglian la roba quelli, io ci mòro d’angustia! È roba mia, è tutta roba mia. È sacrilegio!
(Ha la meglio Giberti che trascina il Papa fuori di scena).

X – Pompeo
Entrano Pompeo e Moncada

POMPEO: Il traditor di Roma e de la Santa Romana Chiesa cerca scampo in Sant’Agnolo e Domineddio l’aita! Allora in cielo si pecca più che in terra e il Padre Eterno vorrà salvo quel cane e lasserà sventrare Roma, sbranare da li servi di Lutero! Così tu farai Domineddio? None, che non potrai! Lassa che mora quel mercante disonesto che già t’ha riventuto a destra e amanca e pigliamiti a mene che l’amo Roma e il Vaticano tutto e più di tutto al mondo amo il Signore. Dimme che sarò papa! Er papa giusto, quello che te ce vòle per rimetterte in alto in sugli altari… Fallo morì a Clemente, ch’io so pronto. Chiamame ar papato! Me stai chiamanno dove troppo in alto ancor venir non voglio? Nun m’intenno… Ahio, me spezzi er core e me rifreghi… Ah, Padre eterno mio che nun capischi gnente: troppo poco me conti, nun me vòi valutà per quel che valgo! Troppo allocco me credi, però te sbaji! Si nun me vòi sur trono de San Pietro, io me ne fotto der tù paradiso… Mò l’ho capito da chi so stati a scola i santi papi!… Io che n’ho fatte tante te facevo però tanto più grande… Dato che devo andare me ne vado e te saluto. Fai che nun me conosci, si per caso m’incontri, nun m’affrontà ché troppo so incazzato: tiente Clemente si te preme tanto! Tiente Clemente e scordate Pompeo. Così sia, amen!

XI – Arrivano i Lanzi
Roma 1527. Albergo del Fico e Palazzo. L’Albergo del Fico è trasformato in una sorta di lazzaretto.

FENADORA: Disime bein par pietà! Vedi bein Riccitello, si tu puo’ farmi un poch cunteinta spiegandi infin che cosa l’è succès! Che cambiameint? Come a s’mov el veint?
CONTESCA: (a Tiberio) Che càpita di novo, Tibé, che penetri con un’altra creatura vivente nello ‘nferno de le cortigiane?
RICCITELLO: Oggi simme a no munno troppo tristo. Ce vònno arroinare: bene a vuje che siete libberate, male a Roma che sarrà stravèriata e stompagnata!
REGENTE: A no capisso un càncaro, pota: parla talian, compare!
TIBERIO: Clemente VII, è tornato a Palazzo ché Ugo Moncada lo fece libberà in cambio del perdono e li Colonna e l’impegno novo a lo Imperatore.
RICCITELLO: Ma ppoi Clemente ha rennejato n’ata vota: lu papa jostratore s’è messo in lega co’ Francesco, Enrico, Milano e co’ Venezia. Accussì, pe’ abbaruccà lu nimico cchiù potuso ha fatto lega co’ quei quattro arrunzati peggio arrobboni e’ Carlo!
FENADORA: e Carlo?
TIBERIO: S’ha incazzato!
RICCITELLO: Carlo, guattato n’ata vota intell’auterezza suia ce jetta ‘ncorpo tutti luterani, surdati arcivi, li Lanziche. E chillo ciafiérro e’ Giorgio Frundsberghe è ‘o capo! Già stanno presso a Roma e noi che simmo d’o stesso bettòne tenimmo ‘na sola cosa a fa: affuffà alliccià allippà fuì: lassare Roma! Ché vònno fa’ papa Lutero e biastemà Clemente e sbennegnallo ‘nzieme a cardinali e preti e roffiani come song’io! E i nun voglio jì truvanno a Cristo int’ ‘de lupine! Pescraie pescrigno e pescruozzo li Lanzi arrivaranno in Roma con ordocotanza pe ffà tonnìna e arrobbà e arroinà e p’atterracce tutti!
TIBERIO: Roma sarà saccojata da li Lanzichenecchi!
RICCITELLO: Fujimme tutt’inzieme, ciantelluzze mie!
FENADORA: Ma indove andiam?
REGENTE: Ca par magnàr ne basta anca le man ma par laorar ghe servarave on lieto!
FENADORA: L’amor, a s’pol far anca par tera!
CONTESCA: Sfratto o non sfratto qui dovémo stare che se giugne Lutero li Lanzi o chicchessia de li sfratti del Papa ne ridi a crepastomaco!
(Riccitello ora mostra l’abito talare: è un prete con tanto di veste viola e cotta bianca. Fenadora lo guarda, sconvolta)
FENADORA: Oh S’gnoùr che robe!
CONTESCA: Ma ch’è suto fatto a covello? Riccitello, che t’hanno fatto?
RICCITELLO: Nell’ora del dolor la Chiesa m’ha chiamato. I’ vaco sempre a vennecà chi è oppresso da lu taluorno varvarico. Mo’ sogno prete e surdato de lo nostro Papa e de Santa Madre Chiesa!
(Le ragazze scoppiano a ridere. Il Cardinal Giberti alza una mano e cerca inutilmente di imporre il silenzio).
CONTESCA: Eh ti ci vedo proprio! E come prete e come soldato: oh Chiesa grama!
RICCITELLO: Quanno ‘a femmena vo’ filà, fila c’o spruòccolo! E non v’allamentate se mi perdete, ca si no, site digne de varrate! È l’ora di pregare e di lottare che di Papa ce n’è uno solo!
FENADORA: Per fortoùna!
(I preti e i cardinali si fanno il segno della croce).
RICCITELLO: Metteteve co’ noi femmene belle se non volite tanta guake passare. Fate com’ò fatt’io, ca me siento tutto santo! Passate alla Chiesa!
FENADORA: Mo’ sta zett, salvadgo, ca insin a ieri hai mangiato indosso a noi e adess mangi co’ la Cesa!
BONA: Grandissimo roffiano guappo! La zoccola cchiù ricca te fa cchiù gola e come te se prenne chilla cana canazza pianti in asso la babuòssa quann’haje fernuto ‘o racuolto. Chiappo ‘e ‘mpiso!
(Il Cardinal Giberti cerca di nuovo di intervenire. Ora si fa silenzio).
GIBERTI: Alto, madonne! Tutto è ciancia eccetto il far presto! Chi si pone mente ai piedi, inciampa! Lassatelo avotito a nostra causa, allotta, Riccitello ché l’ora è grave: li Lanzi son raunati in sul monte Gianicolo e son milioni mentre noi siam pochi! Chi li può fermare? E se il barbaro luterano penetra dentro Roma, Roma non sarà più ché ferro e foco e colpi di cannone e vituperose e impensabili cose e impiccagioni e sventramenti e isquartamenti e tempesta grandiosa e scellerata annienteranno Roma e li romani! Malizia e grazia vincon forza e astuzia e molte volte le ciance de le femmine brave riescono a le lance et a le spade!
(Le donne si guardano tra loro, senza capirsi).
ORLANDINA: Mi non compròn niente di rien!
BONA: Embé?
RICCITELLO: Quattromila de’ nostro non ponno tener testa a quei vintimila diavoli furibondi e Roma sarrà così cassata da la faccia d’o munno!
GIBERTI: Chi può fermare e vincere il demonio se non la cortigiana ammaliziata che col demonio ha pratica e commercio? Ecco che tocca a voi salvare Roma da la totale ruina che l’aspetta. Voi cortigiane romane, femmine da candela, cantoniere, donne da gelosia e étère gloriose, voi dovete salvare Roma, voi che di Roma sète sì gran vanto! La metà de lo genere romano femminile è fatta di donnette goderecce. Se son suto chiaro nol so, ma…
(Vasca e regente vanno dal Cardinale e lo afferrano per la tonaca).
VASCA: Sète puttane pure voi come noi, ìteci voi a farvi sgarronare da li Lanzi!
REGENTE: Ca è tutta la vita che paghémo tassa e multe e riscati al tò Papa, e po’ adesso aémo andare a farse sbudellare par quel buelo? (gli dà uno schiaffo) Toh, pota!
BONA: Salvate le gonnelle vostre, pecché le nostre saranno sempre vittoriose. E fintanto che ce sarà a Roma ‘na puttana, Roma sarà sempre viva! Jatevenne, ciamarroni, jatevenne!
ORLANDINA: Via d’isì, pretri impestator d’honeste puteine!
RICCITELLO: Fenadora, Contesca, fottute ‘ccellenzie de lu mal francioso, discacciatemi pur, che tanto puoco tiempo ancòr vi resta! Vi salverete certo da li Lanzi, ma sarrà lue che vi farà crepare!
(Spari sempre più vicini, poi, nuovo silenzio.Le ragazze si sdraiano pigramente sulla panche. Fenadora non regge più e si alza).
FENADORA: Me a disteingh ciàr, amighe mie. Adèss con la rason averta e pièna e la mi mèint e l’spirit dulèinti e ragiunanti. Acsì pianzendo io vi dico: Tradìe dal mal francioso non si può più guardé tant luntan e far doùlzi programmi… Aloùra? A m’ s’incondriss el cor ma a degh dir la mia. Quést qué a l’è pur l’oura de separarsi e d’arcomaddarse al Sgnoùr! (commossa) Ma qué a foss come quell ch’al ziga e ‘l dis che l’arcurdàrs dèl teimp di bi surris int la miseria e l’è un gran duloùr… (piange) Vualter par mi a sì come sorèle tant amà e d’amoùr bein fort, ma quel mal che non perdòuna a l’è bein più fort del mi amoùr e impone soulameint una solusiòn: separarse.
(Lamenti e singhiozzi delle donne, che si abbracciano e si stringono convulsamente. Fra tutte l’unica calma è Vasca)
VASCA: (ad alta voce) Varzette mie, stèteme a sintine! Che è tutto vesto piàgne? A che serve mo’? Ha ittu bene Fenadora: semo tutte ‘mpestate e te saluto! Ma n’è vero che sèmo proprio da jttà via! Io non son voluto mai esse capessa perché non son capace: so’ troppo ignorante e non ce so’ ffà! Ma mo’ m’è sartato ‘n capo na cosa che me pare che va bbè! Nu a Roma gli volémo bene, è la città nostra e non la potemo lassà dimolì completamente! E allora che s’ha da fa’? Mo’ émo ì ‘ncontro a gli Lanzichenecchi e li dovemo da fermà! E vesto s’ha da fa proprio pe’ Roma e no pe’ gli preti e gliu Papa che pozzi murì sfracellato! Proprio perché siamo taliane e Roma è la più de le più e non ze po’ lassalla arruinà de ‘na mandra de barbari solo perché vonno dà na punizione agliu Papa! Se gliu Papa fa la puttana, fa male, ma se la fanno nù, émo raggione a fallo e più sifilide gli attacchémo a quigli luterani meglio è e quigli c’han capito la ‘mportanza de Roma ce sarrao puro recunuscenti! Dateme retta: unimmoce tutte n’zemmora e iemmogli a fermà gli lanzichenecchi!
(Tutte rimangono ferme, come imbambolate. Interviene Bona a scuotere le compagne).
BONA: Aaahò! Babbuine, scètateve! Jamme a ffà chillo che è schizzato e’ chilla vuocca santa! Tenimmo chiappe sode e petti e’ ferro e faccie mmaliarde e tutt’o resto. Lassamoli metter lor carne a la pegnòta nuosta che teneranno a mente sta jornata scannarùsa!
(Tutte sono elettrizzate. Lungo applauso).
CONTESCA: Evvive Vasca e Bona! Evviva tutte noi! Evviva il mal francese ché la Provvidenza ce l’ha inviato, sirocchie! È l’arma più possante contro covelli scommunicati! Riduciamoci tutte alla Piazza di Navona e po’ a covella di Pasquino a reclutar puttane, suore mie! E tosto ci rechiamo in Santo Janne e sparpagliar semenza e a salvar Roma! Andiamo al grido di: “Bistroje di Roma, unitevi!”.
(Nuovo applauso. La decisione è presa. Le ragazze si mettono i veli delle “coriste”. Cantano in coro).
CORO: Ahi che a dir Roma alla riversa. Amor sì dice. Ahi ch’io son tanto amara ch’altro che pianto in me più non si versa. Nel mondo fui già splendida e preclara or fatta albergo son di gente ignara! Ahi che a dir Roma alla riversa. Amor si dice. Ahi ch’io son tanto amara ch’altro che pianto in me più non si versa!
(Escono lentamente, in processione, incontro al martirio. Si tengono per mano, come le cristiane nelle arene romane. Hanno veli e manti bianchi, come suore benedette. O come crocerossine. Sono vestali, sono agnelli sacrificali. Sono le madri della terra. Musica: un tripudio d’archi, sul tema del sacrificio. Appare sul fondo una specie di croce. Ma non è una croce. È il simbolo delle femministe)

SIPARIO



FINE

 
 
I testi contenuti all'interno del sito web www.mariomoretti.com sono tutelati dalla S.I.A.E., pertanto ne è vietato ogni utilizzo, anche se parziale.
sito realizzato da
Leone Orfeo